La visione "negativa" della Campagna Romana


Frate Leandro Alberti

Descrizione di tutta Italia
(1550)

«Camminando dunque da Roma per questa via Appia, da ogni lato scorgonsi sepolcri molto antichi, chi intiero, e chi mezzo, e chi quasi del tutto rovinato ... Oltre alle sepolture che ad ogni lato di questa via Appia si veggono, eziandio appareno assai vestigi di superbi edifici, si come fondamenti, mura meze roinate, cornici, architravi, avelli, mensulle, poste di gran porte, con altre simili cose, che in vero sono tante, che parerà cosa quasi incredibile, a quelli che non l'averanno veduti. Certamente sono cose da far contristare quei che le veggono, considerando la gran rovina di tanti nobilissimi edifici.»


Charles De Brosses

Lettera a M. de Blancey
(1739)

Quando il Presidente Charles De Brosses, magistrato ed erudito francese nato a Digione nel 1709 e morto a Parigi nel 1777, viaggiò in Italia, sentì il bisogno di descrivere ai suoi amici le impressioni sul viaggio, o meglio le sue disavventure. Avvicinandosi a Roma da Ronciglione, così descrive la campagna romana in una lettera a M. de Blancey scritta da Roma il 21 ottobre 1739:

[...] et puis voici la vraie campagne de Rome qui se présente. Savez-vous ce que c'est que cette campagne fameuse? C'est une quantité prodigieuse et continue de petites collines stériles, incultes, absolument désertes, tristes et horribles au dernier point. Il fallait que Romulus fût ivre quand il songea à bâtir une ville dans un terrain aussi laid.

[...] e poi ecco la vera campagna di Roma che ci si presenta. Lo sapete cos'è questa campagna famosa? E' una quantità prodigiosa e continua di piccole colline sterili, incolte, assolutamente deserte, tristi e orribili al massimo grado. Bisognava che Romolo fosse ubriaco quando decise di fondare una città in un posto coś brutto.

Alcuni giorni dopo il De Brosses descrive ancora a M. de Blancey il territorio tra Roma e Napoli:

[...] Nous partîmes de Rome par la porte de Saint-Jean-de-Latran. Nous retrouvâmes cette malheureuse campagne déserte et désolée, dont je vous ai parl é dans ma dernière lettre. Elle est cependant un peu moins triste que de l'autre còté, surtout à cause des longues files de ruines d'aqueducs qui la décorent, et qui servaient autrefois à amener à Rome les eaux des montagnes distantes de plusieurs lieues.

C'est une chose surprenante que les ouvrages de ces Romains; on ne se lasse point d'admirer la grandeur de leurs entreprises, qui est une preuve de leur génie. Tous ces aqueducs sont composés d'une quantité prodigieuse d'arcades longues et étroites, formées par des piliers et des voûtes de briques, au-dessus desquels, comme sur une terrasse, court le canal qui va prendre les eaux à leur source, pour les amener à leur destination.

[...] Nous voilà donc dans cette campagne, misérable au-delà de tout ce qu'on peut dire. Pas un marbre, pas une maison, et ne vous en prenez point à Romulus. J'ai eu tort de l'en accuser dans ma précédente lettre; le terrain est le plus fertile du monde, et produirait tout ce qu'on voudrait s'il était cultivé. Vous me direz: pourquoi ne l'est-il point? On vous répondra, à cause de l'intempérie de l'air qui fait mourir tous ceux qui y viennent habiter. Mais moi je réponds que la proposition est réciproque. Il n'est point habité, parce qu'il y a de l'intempérie et il y a de l'intempérie parce qu'il n'est point habité."

[...] Siamo partiti da Roma dalla porta di S. Giovanni in Laterano. Abbiamo ritrovato questa disgraziata campagna deserta e desolata, della quale vi ho già parlato nella mia ultima lettera. E' ora un po' meno triste che dall'altra parte, soprattutto per le lunghe file di rovine di acquedotti che corrono e che un tempo servivano a portare a Roma l'acqua delle montagne distanti da parecchi luoghi. Sono sorprendenti le opere di quei Romani; non si smette di ammirare la grandezza delle loro imprese, che testimonia il loro genio. [...] Ed eccoci dunque in questa campagna, miserabile più di quanto sia possibile raccontare. Né un marmo, né una casa, e non prendetevela più con Romolo. Ho avuto torto di accusarlo nella mia precedente lettera; il terreno è il più fertile del mondo, e produrrebbe tutto quello che uno ci voglia coltivare. Allora mi direte: e perché non lo è? Vi risponderò, a causa dell'insalubrità dell'aria, che fa morire tutti quelli che ci vengono ad abitare. Ma mi rispondo che la frase è reciproca. Non è abitata, perché è insalubre, ed è insalubre perché non è assolutamente abitata.

Denunciando l'incuria della campagna romana e proponendo interpretazioni "razionali", trascurando i rumori e i colori del territorio attraversato, il De Brosses si rivela proprio un degno rappresentante del secolo dei Lumi!


Giuseppe Gioachino Belli

Er deserto
(1836)

Del tutto diversa appare la campagna romana di un Romano come il Belli. Chi doveva attraversare l'Agro romano, magari solo per raggiungere un "precojjo", cioè il cascinale dove comprare la "ggiuncata" (una specie di ricotta di latte rappreso e non salato fatto scolare in cestelli di giunco, un tempo piatto caratteristico per l'Ascensione), era impressionato dallo spazio immenso, silenzioso e desolato, un mare deserto interrotto solo da "quarche scojio", cioè qualche rudere, e luogo adatto per agguati mortali. Meglio piuttosto farsi castrare da uno dei norcini del Pantheon (la "Ritonna")!

Dio me ne guardi, Cristo e la Madonna
d'annà ppiú ppe ggiuncata a sto precojjo.
Prima... che pposso dí ?... pprima me vojjo
fà ccastrà dda un norcino a la Ritonna.

Fà ddieci mijja e nun vedé una fronna!
Imbatte ammalappena in quarche scojjo!
Dapertutto un zilenzio com'un ojjo,
che ssi strilli nun c'è cchi tt'arisponna!

Dove te vorti una campaggna rasa
come sce sii passata la pianozza
senza manco l'impronta d'una casa!

L'unica cosa sola c'ho ttrovato
in tutt'er viaggio, è stata una bbarrozza
cor barrozzaro ggiú mmorto ammazzato.


Rainer Maria Rilke

Il grande poeta tedesco di origine austriaca venne a Roma da Parigi dopo aver lasciato l'incarico di segretario dello scultore Auguste Rodin.

Römische Campagna
(Frühsommer 1908)

Aus der vollgestellten Stadt, die lieber
schliefe, träumend von den hohen Thermen,
geht der grade Gräberweg ins Fieber;
und die Fenster in den letzten Fermen
sehn ihm nach mit einem bösen Blick.
Und er hat sie immer im Genick,
wenn er hingeht, rechts und links zerstörend,
bis er draußen atemlos beschwörend
seine Leere zu den Himmeln hebt,
hastig um sich schauend, ob ihn keine
Fenster treffen. Während er den weiten
Aquädukten zuwinkt herzuschreiten,
geben ihm die Himmel für die seine
ihre Leere, die ihn überlebt.

Una premessa è necessaria, altrimenti la poesia rischia di non essere mai compresa.

Alla base di tutto c'è una "personificazione" della via Appia (der Gräberweg = la via delle tombe), alla quale Rilke attribuisce sentimenti sicuramente non troppo distanti da quelli da lui provati visitando per la prima volta la Regina delle vie.

La strada, allontanandosi dal centro urbano, è come timorosa di abbandonare il conosciuto centro per l'ignoto (ins Fieber = la febbre) ed è ancora lei a causare il disfacimento delle sue stesse tombe. Non dovuto, quindi, al passare dei secoli, ma a questa corsa affannosa verso il fuori (rechts und links zerstörend = distruggendo tutto a destra e a sinistra).

Si direbbe quasi che Rilke voglia rappresentare la via Appia nell'atto di una fuga liberatrice dalla città e dai suoi simboli, (le Terme ed il sovrappopolamento) che comporta però, come spesso avviene in questi casi, paura (einem bösen Blick = gli sguardi malvagi, immer im Genick = il fiato sul collo) e nostalgia (il riconoscere amichevolmente gli acquedotti).

Bellissimo il finale di riconciliazione totale con la poetica "conquista del vuoto", quando la città scomparendo definitivamente rende possibile la pace e il ricongiungimento al Cielo. (S.P.)

Campagna Romana
(Estate 1908)

Dalla città stracolma, che preferirebbe dormire
e sognare delle sue maestose Terme,
la via dei sepolcri si diparte diritta verso la febbre;
e le finestre degli ultimi poderi
la seguono con uno sguardo malvagio.
Uno sguardo che la segue ovunque vada,
mentre essa prosegue distruggendo ogni cosa ai suoi margini,
fino che una volta fuori, supplica senza fiato
il cielo e gli fa offerta del suo vuoto
guardandosi nervosamente attorno
per vedere che non ci siano altri sguardi a seguirla.
Accenna ai grandi acquedotti di avvicinarsi,
e in quel mentre i cieli le donano per i suoi vuoti i loro
ed essi le sopraviveranno.


Otello De Angelis

(secondo dopoguerra)

Come ci racconta Giuseppe Micheli nella sua Storia della canzone romana (Roma, 1966), nell'immediato dopoguerra vi fu una certa ripresa della canzone in versi romaneschi dedicata soprattutto alla città: «Sporadici concorsi banditi per la festa di San Giovanni, ormai in pieno decadimento, e per la "Festa de Noantri", espressero ancora alcune geniali canzoni».

Tra queste ce ne segnala una che sembra rappresentare efficacemente quella che era allora una delle poche risorse dei "poveracci" per trovare un tetto: sistemarsi "sotto un arco dell'acquedotto", naturalmente solo nel caso in cui non fossero già esaurite le possibilità di alloggi del genere («fors'è spiccio»). Ci vengono in mente, così, le arcate dell'Acquedotto Felice, liberate solo dopo alcuni decenni. [P.G.]

Sotto un arco dell'acquedotto

Ho girato tutto quanto lo stivale
pe' trova' 'sta boia casa e 'na cucina,
ma dovunque e tutto ancora 'na rovina
stanno tutti senza casa come me.

E così sai ch'ho pensato?
Nina mia te porto all'Appia;
l'acquedotto che io sappia
fors'è spiccio pe' me e pe' te.

Sotto un arco dell'acquedotto
finarmente ciavremo un tetto,
senza manco paga' l'affitto
stretta ar petto te ce terr˜.

Tutto quello che nun t'ho detto,
tutto quello che nun t'ho scritto,
sotto un arco dell'acquedotto
finarmente te lo dirò...


Pier Paolo Pasolini

Poesie mondane
(10 giugno 1962)

Nell'orizzonte della campagna romana e dei suoi confini della via Appia, della via Tuscolana si celebra l'epica dell'incontro tra intellettuale e popolo, tra sociologia e pianificazione della periferia urbana. Qui Pasolini rivela allora il dramma di mancate promesse di emancipazione del sottoproletariato, della cancellazione irrecuperabile dei valori del passato. La campagna romana appare, nelle poesie come nei film (nel cortometraggio La ricotta, 1962-1963, il secondo brano è recitato nientemeno che da Orson Welles), troppo luminosa, accecata dal sole.

Un solo rudere, sogno di un arco,
di una volta romana o romanica,
in un prato dove schiumeggia un sole
il cui calore è calmo come un mare:
lì ridotto, il rudere è senza amore. Uso
e liturgia, ora profondamente estinti,
vivono nel suo stile - e nel sole -
per chi ne comprenda presenza e poesia.
Fai pochi passi, e sei sull'Appia
o sulla Tuscolana: lì tutto è vita,
per tutti. Anzi, meglio è complice
di quella vita, chi stile storia
non ne sa. I suoi significati
si scambiano nella sordida pace
indifferenza e violenza. Migliaia,
migliaia di persone, pulcinella
di una modernità di fuoco, nel sole
il cui significato è anc'esso in atto,
si incrociano pullulando scure
sugli accecanti marciapiedi, contro
l'Ina-Case sprofondate nel cielo.

Io sono una forza del Passato.
Solo nella tradizione è il mio amore.
Vengo dai ruderi, dalle chiese,
dalle pale d'altare, dai borghi
abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,
dove sono vissuti i fratelli.
Giro per la Tuscolana come un pazzo,
per l'Appia come un cane senza padrone.
O guardo i crepuscoli, le mattine
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,
come i primi atti della Dopostoria,
cui io assisto, per privilegio d'anagrafe,
dall'orlo estremo di qualche età
sepolta. Mostruoso è chi è nato
dalle viscere di una donna morta.
E io, feto adulto, mi aggiro
più moderno di ogni moderno
a cercare fratelli che non sono più.


Anonimo

(1981)

Concludiamo con il sonetto di un anonimo poeta romanesco che lamenta una Caffarella ancora soffocata dai rifiuti, a quasi trent'anni da quel Piano Regolatore Generale di Roma che, il 16 dicembre 1965, destinava la Caffarella e l'intero comprensorio della via Appia Antica a parco pubblico.

La valle della Caffarella
(30 anni doppo)

So' state scritte e fatte illustrazioni,
mostre, planimetrie, conferenze,
espropri secolari, intimazioni,
scambi de' sedie a grosse competenze.

Vorei sape', sia detto in confidenze,
quanti ne so' volati de mijoni
pe' sta gran buffonata senza gnente
sta presa 'n giro in barba a li cojoni.

Er parco? na' monnezza puzzolente!
Chi scarica le gomme o pianta l'orto
chi ariva primo ce fa er prepotente

Er cittadino onesto è n'omo morto.
Nun c'è 'n cartello, nun ce sta n'agente
Si fai n'osservazzione: hai puro torto!


Tre anni dopo partirà l'avventura del Comitato per il Parco della Caffarella.


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