Miti e leggende della Caffarella secondo gli autori latini


La condizione attuale del fiume Almone, fosso nascosto da argini rialzati, in parte addirittura interrato, degradato alla indegna funzione di collettore fognario, non agevola certo la comprensione dell'immagine pubblica che questo luogo, sede della cerimonia annuale in onore della dea Cibele, vantava nell'antichità.

Alla fine del III sec. a.C. la narrazione dell'introduzione a Roma della "Grande Madre" Cibele si abbellì della leggenda di un miracolo avvenuto durante la fase conclusiva della seconda Guerra Punica, con Annibale che scorrazzava in Italia. Nel poema intitolato "I Fasti" lo scrittore Ovidio descrive, mese per mese, le più importanti cerimonie religiose del tempo; per il mese di aprile il poeta narra questa storia, collegata alla cerimonia della "Lavatio Matris Deum": durante il trasferimento della Grande Madre a Roma, proprio dove il fiume Almone confluisce nel Tevere, la nave che trasportava la pietra sacra si incagliò e, come per volere divino, pareva non volersi spostare nonostante i molteplici tentativi di farla procedere trainandola.

Publio Ovidio Nasone

Fasti
Liber IV

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post, ut Roma potens opibus iam saecula quinque
vidit et edomito sustulit orbe caput,
carminis Euboici fatalia verba sacerdos
inspicit; inspectum tale fuisse ferunt:
Poi, quando la Roma potente vide cinque secoli alzò la testa sul mondo conquistato, il sacerdote consultò il destino nelle parole del carme Euboico, e questo sarebbe stato interpretato:
"mater abest: matrem iubeo, Romane, requiras.
cum veniet, casta est accipienda manu."
"La Madre è assente: ti impongo, o Romano, di cercare la Madre; quando arriverà, dovrà essere ricevuta da mano casta"
obscurae sortis patres ambagibus errant,
quaeve parens absit, quove petenda loco.
consulitur Paean, "divum" que "arcessite Matrem"
inquit; "in Idaeo est invenienda iugo."
mittuntur proceres. Phrygiae tum sceptra tenebat
Attalus; Ausoniis rem negat ille viris.
I padri si smarriscono nelle ambiguità dell'oscuro oracolo, quale sia il genitore assente, in che luogo debba essere richiesta. Si consulta l'oracolo di Delfi, che risponde: "Andate a cercare la Madre degli Dei, la si troverà nei gioghi del monte Ida. Si inviano dei notabili. In quel tempo regnava sulla Frigia Re Attalo, il quale rifiuta la richiesta ai nobili Italiani"
mira canam: longo tremuit cum murmure tellus,
et sic est adytis diva locuta suis:
"ipsa peti volui: ne sit mora; mitte volentem:
dignus Roma locus quo deus omnis eat."
ille soni terrore pavens "proficiscere" dixit;
"nostra eris: in Phrygios Roma refertur avos."
Canterò un fatto straordinario: la terra tremò con lungo boato, e così parlò la Dea dai suoi ambienti: "Io stessa ho voluto essere cercata, che non ci sia indugio; spediscimi che lo voglio: Roma è luogo degno per ogni dio." Attalo tremando di terrore alla voce disse: "Parti, sarai comunque nostra: Roma discende da antenati frigi."
protinus innumerae caedunt pineta secures
illa, quibus fugiens Phryx pius usus erat.
mille manus coeunt, et picta coloribus ustis
caelestum Matrem concava puppis habet.
illa sui per aquas fertur tutissima nati,
longaque Phrixeae stagna sororis adit,
Rhoeteumque capax Sigeaque litora transit,
et Tenedum et veteres Eetionis opes.
Subito innumerevoli scuri tagliano quei tronchi di pino che aveva adoperato il pio Frigio [Enea] in fuga. Mille mani si uniscono, e la nave concava dipinta con colori a fuoco riceve la Madre degli Dei. Quella viene trasportata in piena sicurezza attraverso le acque del suo figlio [Nettuno], e raggiunge il lungo canale della sorella di Frisso, oltrepassa il tempestoso capo Reteo e le spiagge Sigee, e quindi Tenedo e l'antica potenza di Eezione.
Cyclades excipiunt, Lesbo post terga relicta,
quaeque Carysteis frangitur unda vadis;
transit et Icarium, lapsas ubi perdidit alas
Icarus, et vastae nomina fecit aquae.
tum laeva Creten, dextra Pelopeidas undas
deserit, et Veneris sacra Cythera petit.
hinc mare Trinacrium, candens ubi tinguere ferrum
Brontes et Steropes Acmonidesque solent,
aequoraque Afra legit, Sardoaque regna sinistris
respicit a remis, Ausoniamque tenet.
ostia contigerat, qua se Tiberinus in altum
dividit et campo liberiore natat:
omnis eques mixtaque gravis cum plebe senatus
obvius ad Tusci fluminis ora venit.
procedunt pariter matres nataeque nurusque
quaeque colunt sanctos virginitate focos.
sedula fune viri contento bracchia lassant:
vix subit adversas hospita navis aquas.
sicca diu fuerat tellus, sitis usserat herbas:
sedit limoso pressa carina vado.
quisquis adest operi, plus quam pro parte laborat,
adiuvat et fortes voce sonante manus:
illa velut medio stabilis sedet insula ponto;
attoniti monstro stantque paventque viri.
Claudia Quinta genus Clauso referebat ab alto
(nec facies impar nobilitate fuit),
Lasciata Lesbo alle spalle raggiungono le Cicladi, e quei guadi di Caristo dove si infrange l'onda; oltrepassa anche il mare Icario, dove Icaro perse le ali cadute e lasciò il suo nome alle vaste acque. Poi a sinistra Creta, a destra le onde del Peloponneso, e si dirige verso Citera sacra a Venere. Quindi il mare trinacrio [della Sicilia], dove Bronte, Sterope e Acmonide usano immergere il ferro incandescente, e le equoree distese di Africa, e vede dalla parte dei remi di sinistra i regni della Sardegna, e raggiunge l'Ausonia [l'Italia]. Aveva toccato la foce [Ostia] dove il Tevere si disperde nel'alto mare e scorre in uno spazio più libero: tutti i cavalieri e i seri senatori mischiati insieme alla plebe le vanno incontro alla foce del fiume toscano. Procedono accanto le madri, le figlie e le nuore, e le vergini che tutelano i sacri fuochi. Gli uomini affaticano le attive braccia con il tiro alla fune: la nave avanza a stento nella corrente contraria. La terra era secca da tempo, l'erba era bruciata dalla sete: la nave resiste incagliata nel guado fangoso. Ognuno partecipa allo sforzo, e si affatica quanto può, e aiuta le mani forti con le grida: la nave sta ferma in mezzo all'acqua come se fosse un'isola. Sbalorditi di fronte al fenomeno gli uomini si fermano e si impauriscono. Claudia Quinta discendeva dalla stirpe dell'antico Clauso (e il suo aspetto non era da meno in quanto a nobiltà),
casta quidem, sed non et credita: rumor iniquus
laeserat, et falsi criminis acta rea est.
cultus et ornatis varie prodisse capillis
obfuit ad rigidos promptaque lingua senes.
virtuosa essa passava per non esserlo: voci ingiuste, accuse infondate, avevano attaccato la sua reputazione, il suo abbigliamento, l'eleganza delle sue acconciature le avevano fatto torto e, secondo i vecchi severi, la sua lingua era troppo pronta
conscia mens recti famae mendacia risit,
sed nos in vitium credula turba sumus.
haec ubi castarum processit ab agmine matrum
et manibus puram fluminis hausit aquam,
ter caput inrorat, ter tollit in aethera palmas
(quicumque aspiciunt, mente carere putant),
summissoque genu voltus in imagine divae
figit, et hos edit crine iacente sonos:
"supplicis, alma, tuae, genetrix fecunda deorum,
accipe sub certa condicione preces.
casta negor: si tu damnas, meruisse fatebor;
morte luam poenas iudice victa dea;
sed si crimen abest, tu nostrae pignora vitae
Consapevole della propria rettitudine se la rise delle menzogne che si dicevano in giro, e tuttavia noi altri siamo gente facile a credere nel male. Come quella si avanza dal gruppo delle caste matrone, e raccoglie con le mani l'acqua pura del fiume, e per tre volte si bagna il capo, tre volte alza le mani al cielo (tutti quelli che guardano pensano che sia impazzita), e inginocchiata fissa il volto nell'immagine della dea, e sciolti i capelli dice queste parole: "Alma e feconda Madre degli Dei, accogli la preghiera di questa tua supplice in una condizione sicura. Si nega che io sia casta: se tu mi condanni, affermerò che l'ho meritato; pagherò con la morte la colpa, per guiudizio divino; se invece la colpa è assente, tu darai con un gesto la prova della mia purezza,
re dabis, et castas casta sequere manus."
dixit, et exiguo funem conamine traxit;
mira, sed et scaena testificata loquar:
mota dea est, sequiturque ducem laudatque sequendo;
index laetitiae fertur ad astra sonus.
e casta, tu seguirai mani caste!" Ciò detto, ella senza grande sforzo tira la corda; dirò una cosa che fa stupire, eppure attestata anche in teatro: la dea si avvia, segue la donna che la guida e, seguendola, la giustifica. Un clamore che esprime la gioia sale fino agli astri.
fluminis ad flexum veniunt (Tiberina priores
Atria dixerunt), unde sinister abit.
nox aderat: querno religant in stipite funem,
dantque levi somno corpora functa cibo.
lux aderat: querno solvunt a stipite funem,
ante tamen posito tura dedere foco,
ante coronarunt puppem, sine labe iuvencam
mactarunt operum coniugiique rudem.
est locus, in Tiberim qua lubricus influit Almo
et nomen magno perdit in amne minor.
illic purpurea canus cum veste sacerdos
Almonis dominam sacraque lavit aquis.
exululant comites, furiosaque tibia flatur,
et feriunt molles taurea terga manus.
Claudia praecedit laeto celeberrima voltu,
credita vix tandem teste pudica dea;
ipsa sedens plaustro porta est invecta Capena:
sparguntur iunctae flore recente boves.
Arrivano alla curva del fiume (che gli antichi chiamano Atrio del Tevere), da dove il fiume gira a sinistra. Arriva la notte: legano la fune a un tronco di quercia, e abbandonano i corpi sazi di cibo a un sonno leggero. Arriva il giorno: sciolgono la fune dal tronco di quercia, dopo tuttavia aver posto davanti bracieri di incenso, ornarono prima la nave di ghirlande, e immolarono una giovenca che non aveva mai né lavorato né montato. Esiste un luogo dove lo scorrevole Almone confluisce nel Tevere e il fiume minore perde il nome nel fiume maggiore. Là un sacerdote canuto con la veste purpurea lava la Signora e gli arnesi sacri nell'acqua dell'Almone. Il corteo urla, il flauto suona furiosamente, e mani effemminate percuotono i tamburi di pelle di toro. Claudia, celebrata dalla folla, precede con il volto lieto, alla fine e con fatica creduta casta per la testimonianza della dea: la quale seduta sul carro è trasportata attraverso Porta Capena: i buoi aggiogati sono cosparsi di fiori appena colti.
Fumetto con
Almone e Silvia

Nell'Eneide si parla di Almone come il primo dei caduti nativi contro i troiani, dopo l'uccisione del cervo amato ed incoccardato da Silvia: il fumetto intitolato "Arrivano i troiani" mostra tutti e tre i personaggi.

Publio Ovidio Nasone

METAMORPHOSEN
Liber XV

Nel poema intitolato "Le Metamorfosi" Ovidio dedica alcune pagine anche alle vicende della ninfa Egeria dopo la morte di Numa Pompilio:
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Talibus atque aliis instructo pectore dictis
In patriam remeasse ferunt ultroque petitum
Accepisse Numam populi Latialis habenas.
Coniuge qui felix nympha ducibusque Camenis
Sacrificos docuit ritus gentemque feroci
Assuetam bello pacis traduxit ad artes.
Con la mente addottrinata da siffatti e altri insegnamenti, raccontano che Numa fece ritorno in patria e, richiesto per consenso di popolo, prese le redini della gente del Lazio. Fortunato per una ninfa quale consorte18 e sotto l'ispirazione delle Camene, fece conoscere i rituali dei sacrifici e rivolse alle opere di pace quella gente avvezza alla guerra crudele.
Qui postquam senior regnumque aeuumque peregit,
Extinctum Latiaeque nurus populusque patresque
Defleuere Numam; nam coniunx, urbe relicta,
Vallis Aricinae densis latet abdita siluis
Sacraque Oresteae gemitu questuque Dianae
Impedit. A quotiens nymphae nemorisque lacusque,
Ne faceret, monuere et consolantia uerba
Dixerunt! quotiens flenti Theseius heros;
«Siste modum;», dixit «neque enim fortuna querenda
Sola tua est; similes aliorum respice casus,
Mitius ista feres; utinamque exempla dolentem
Non mea te possent releuare! sed et mea possunt.
Dopo che alquanto vecchio concluse il regno e l'esistenza, le matrone, il popolo, i patrizi piansero la morte di Numa: lasciata Roma, la consorte rimase nascosta entro le fitte selve della valle di Aricia, e con pianti e lamentazioni disturbò le cerimonie sacre di Diana Orestea.29 Ah, quante volte le ninfe delle selve e dei laghi la esortarono perché così non facesse e le rivolsero parole di consolazione! Quante volte l'eroe, figlio di Teseo30, mentre ella piangeva: «Poni un termine» le disse, «giacché degna di lamento non è sola la tua sorte: volgiti a guardare vicende simili d'altri e più moderatamente avvertirai le tue. Come sarei felice che esempi non miei potessero consolarti! Ma anche i miei lo possono.
Fando aliquem Hippolytum uestras, puto, contigit aures
Credulitate patris, sceleratae fraude nouercae
Occubuisse neci; mirabere uixque probabo,
Sed tamen ille ego sum. Me Pasiphaeia quondam
Temptatum frustra patrium temerare cubile,
Quod uoluit, finxit et uoluisse finxit crimine uerso
(Indiciine metu magis offensane repulsae?)
Damnauit meritumque nihil pater eicit urbe
Hostilique caput prece detestatur euntis.
Forse, per sentito dire, alle tue orecchie giunse che un certo Ippolito sottostò a morte crudele per la credulità del padre, per la frode della scellerata noverca. Ne avrai stupore e a stento potrò dartene prova; ma quel giovane son io. Un giorno la figlia di Pasifae31, dopo avermi invano tentato a violare il letto paterno, inventò quanto ella bramava; e ritorcendo su di me l'accusa, inventò che fui io a volere (più per timore di una denuncia o per il bruciore di un rifiuto?): e me, al tutto innocente, il padre cacciò dalla città, e mentre mi allontanavo egli scagliò sul mio capo una feroce imprecazione.
Pittheam profugo curru Troezena petebam
Iamque Corinthiaci carpebam litora ponti,
Cum mare surrexit cumulusque immanis aquarum
In montis speciem curuari et crescere uisus
Et dare mugitus summoque cacumine findi.
Corniger hinc taurus ruptis expellitur undis
Pectoribusque tenus molles erectus in auras
Naribus et patulo partem maris euomit ore.
Corda pauent comitum; mihi mens interrita mansit,
Exsiliis contenta suis, cum colla feroces
Ad freta conuertunt arrectisque auribus horrent
Quadrupedes mostrique metu turbantur et altis
Praecipitant currum scopulis; ego ducere uana
Frena manu spumis albentibus oblita luctor
Et retro lentas tendo resupinus habenas.
Sbandito, sul mio cocchio mi dirigevo verso la città di Pitteo, Trezene, e già percorrevo la spiaggia del mare di Corinto, quando si ingrossarono le onde; a guisa di monte, mi parve che si gonfiasse un enorme cumulo di acque, crescesse emanando boati e si fendesse sulla cima. Dai gorghi squarciati balzò fuori un toro con enormi corna, ritto nell'aria lieve sino al petto, vomitando parte di mare dalle froge e dalla smisurata bocca. Gelarono i cuori dei miei compagni; ma a me rimase inalterata la mente, tutta compresa nei pensieri dell'esilio; però focosi i cavalli volgono le teste al mare, con le orecchie rizzate trasalgono, per il timore del mostro si imbizzarriscono e lanciano il cocchio verso le alte scogliere. Io mi affanno, con impotente mano, a maneggiare i freni cosparsi di bianca schiuma e, teso all'indietro, traggo a me le flessibili redini.
Nec tamen has uires rabies superasset equorum,
Ni rota, perpetuum qua circumuertitur axem,
Stipitis occursu fracta ac disiecta fuisset.
Excutior curru lorisque tenentibus artus
Viscera uiua trahi, neruos in stirpe teneri,
Membra rapi partim, partim reprensa relinqui,
Ossa grauem dare fracta sonum fessamque uideres
Exhalari animam nullasque in corpore partes,
Noscere quas posses; unumque erat omnia uulnus.
Num potes aut audes cladi componere nostrae,
Nympha, tuam? Vidi quoque luce carentia regna
Et lacerum foui Phlegethontide corpus in unda;
Nec nisi Apollineae ualido medicamine prolis
Reddita uita foret; quam postquam fortibus herbis
Atque ope Paeonia, Dite indignante, recepi,
Tum mihi, ne praesens augerem muneris huius
Inuidiam, densas obiecit Cynthia nubes;
Vtque forem tutus possemque impune uideri,
Addidit aetatem nec cognoscenda reliquit
Ora mihi Cretenque diu dubitauit habendam
Traderet an Delon; Delo Cretaque relictis,
Hic posuit nomenque simul, quod possit equorum
Admonuisse, iubet deponere: "qui" que "fuisti
Hippolytus," dixit "nunc idem Virbius esto."
Tuttavia la furia dei cavalli non avrebbe avuto la meglio su questi miei sforzi, se una ruota, là dove essa sempre si volge intorno all'asse, non si fosse spezzata all'urto di un tronco e frantumata. Sono sbalzato dal cocchio; ma poiché le briglie mi avvinghiavano il corpo, avresti potuto vedere le mie viscere straziate vive al suolo; muscoli lacerati sul tronco; membra trascinate in parte, in parte trattenute e lasciate indietro; ossa fratturate causare un sordo rumore; il vigor vitale straziato affievolirsi e nessuna parte del corpo che si potesse distinguere: tutto era un'unica piaga. Potresti tu, oppure oseresti, o ninfa, mettere a paragone la tua con la mia iattura? Visitai pure i regni privi di luce32 e immersi il mio lacerato corpo nell'onda fervida del Flegetonte: nè senza un portentoso rimedio del figlio di Apollo33 mi sarebbe stata restituita la vita. Quando essa, nonostante lo sdegno di Dite, mi fu resa con erbe efficaci e l'arte di Peone, Cinzia34 allora mi avvolse intorno una fitta nube, perché, visibile, non accrescessi l'invidia per un tale dono; e perché vivessi tranquillo e potessi mostrarmi senza mio danno, essa mi accrebbe gli anni, mi lasciò un aspetto irriconoscibile e a lungo fu incerta, se io dovessi abitare a Creta o a Delo; ma scartate Delo e Creta, mi pose in questo luogo e nel contempo mi prescrisse di abbandonare il mio nome, che può richiamare alla mente i cavalli; e: "Tu, che fosti Ippolito," mi disse, "da ora innanzi sarai Virbio."
Hoc nemus inde colo de disque minoribus unus
Numine sub dominae lateo atque accenseor illi.
Non tamen Egeriae luctus aliena leuare
Damna ualent montisque iacens radicibus imis
Liquitur in lacrimas, donec pietate dolentis
Mota soror Phoebi gelidum de corpore fontem
Fecit et aeternas artus tenuauit in undas.
Da quel tempo, abito questo bosco; quale uno dei numi minori, vivo nascosto sotto la maestà della mia signora e sono suo accolito".
Gli altrui danni tuttavia non possono lenire il lutto di Egeria: giacendo alle falde più basse di un monte, ella si scioglie in pianto, sino a che, mossa dal profondo amore della dolente, la sorella di Febo mutò il suo corpo in un gelido fonte e ne dissolse le membra in un fluire perenne.

[27] Tornato a Roma, Numa ne divenne re, successore di Romolo.
[28] Egeria
[29] Il culto di Diana leggendariamente importato da Oreste, figlio di Agamennone, nel Lazio.
[30] Ippolito. Fedra, la matrigna, se ne era innamorata; respinta, accusò di violenza Ippolito di fronte al padre Teseo, che maledisse il figlio, causandone la morte qui descritta.
[31] Fedra.
[32] Gli Inferi.
[33] Esculapio, nume della medicina, venerato soprattutto in Epidauro.
[34] La dea Diana, di cui Ippolito, noto per castità, fu sempre devoto.

PUBLIO VIRGILIO MARONE

AENEIDOS
Liber VII

Il bosco della ninfa Egeria di Ariccia è citato anche nel libro settimo dell'Eneide:
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Ibat et Hippolyti proles puicherrima bello,
Virbius, insignem quem mater Aricia misit,
eductum Egeriae lucis umentia circum
litora, pinguis ubi et placabilis ara Dianae.
Namque ferunt fama Hippolytum, postquam arte novercae
occiderit patriasque explerit sanguine poenas
turbatis distractus equis, ad sidera rursus
aetheria et superas caeli venisse sub auras,
Paeonis revocatum herbis et amore Dianae,
Tum pater omnipotens, aliquem indignatus ab umbris
mortalem infernis ad lumina surgere vitae,
ipse repertorem medicinae talis et artis
fulmine Phoebigenam Stygias detrusit ad undas.
Muoveva alla guerra anche il bellissimo figlio d'Ippolito,
Virbio, che insigne mandò la madre Aricia,
allevato nei boschi di Egeria intorno alle umide
rive dov'è un'ara della ricca e clemente Diana.
Tramandano infatti che Ippolito, dopo che morì per l'inganno
della matrigna, e pagò con il sangue la vendetta del padre,
dilaniato dai cavalli imbizzarriti, di nuovo tornò
alle stelle eteree e sotto l'aria superna del cielo,
richiamato dalle erbe peonie e dall'amore di Diana.
Allora il Padre onnipotente, indignato che qualcuno, mortale,
risorgesse dalle ombre inferne al lume della vita,
sprofondò con il fulmine nelle onde stigie l'inventore
d'un tale rimedio e artificio, il figlio di Febo.
At Trivia Hippolytum secretis alma recondit
sedibus et Nymphae Egeriae nemorique relegat,
solus ubi in silvis Italis ignobilis aevom
exigeret versoque ubi nomine Virbius esset;
unde etiam tempio Triviae lucisque sacratis
cornipedes arcentur equi, quod litore currum
et iuvenem monstris pavidi effudere marinis.
Filius ardentis haut setius aequore campi
exercebat equos curruque in bella ruebat.
Ma Trivia benigna nasconde Ippolito in luoghi
segreti, e lo apparta nel bosco della ninfa Egeria,
dove solitario ed ignoto trascorresse nelle italiche selve
la vita, e dove, mutato nome, divenisse Virbio;
e perciò si tengono ancora lontani dal tempio di Trivia
e dai sacri boschi i cavalli dal corneo zoccolo,
poiché sul lido rovesciarono il carro e il giovane, atterriti
dai mostri marini. Il figlio spronava ugualmente
gli ardenti cavalli nel piano, a guerra correva sul carro.


Juvenal

Fino al 1998 il ninfeo di Egeria appariva, nonostante il degrado, nel suo aspetto di "ruina" che in seguito affascinò gli autori romantici da Goethe a Byron, a Chateaubriand, Verri ecc.. Oggi il restauro condotto dal Comune di Roma ha purtroppo cancellato tale immagine, ma in compenso possiamo ricostruire, con un po' di fantasia, l'aspetto un po' "barocco" dell'edificio costruito da Erode Attico. Anche qui la disinvoltura nell'uso di marmi e mosaici laddove si voleva imitare una grotta naturale avrebbe probabilmente fatto storcere la bocca al poeta Giovenale; leggiamo nella terza Satira come il poeta descrive il vero ninfeo di Egeria, quello che si trovava nei pressi di porta Capena:

Satire 3

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10 Sed dum tota domus raeda componitur una,
substitit ad veteres arcus madidamque Capenam.
hic, ubi nocturnae Numa constituebat amicae,
nunc sacri fontis nemus et delubra locantur
Iudaeis, quorum cophinus faenumque supellex
15 (omnis enim populo mercedem pendere iussa est
arbor et eiectis mendicat silva Camenis).
in vallem Egeriae descendimus et speluncas
dissimiles veris. quanto praesentius[1] esset
numen aquis, viridi si margine clauderet undas
20 herba, nec ingenuum violarent marmora tofum.
10 Ma mentre tutti i bagagli di casa erano assemblati insieme, ci si fermò agli archi vecchi e all'umida Porta Capena [2]. Qui, dove Numa si stabiliva insieme alla sua notturna amica, oggi tanto il bosco quanto il santuario della sacra sorgente sono affittati ai Giudei, il cui unico arredamento sono un cesto di vimini e un mucchio di paglia (infatti ogni albero è destinato a pagare un pegno al popolo, e, scacciate le Camene, il bosco chiede l'elemosina). Discendemmo nella valle di Egeria e nelle grotte inverosimili; quanto più adatto sarebbe stato al Nume delle acque se chiudesse le onde un verde margine d'erba, e se non avessero violato con il marmo il tufo naturale!
[1] praestantius: presentius Vind. [2] Porta Capena era sulla via Appia all'altezza della F.A.O.. Sulla porta passava lo speco dell'acquedotto Marcio. Per questo l'"umida"

M. VALERIO MARZIALE

EPIGRAMMATON
LIBER III - 47

87 d.C.

Questa storia della porta Capena gocciolante la troviamo anche in un epigramma di Marziale:
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Capena grandi porta qua pluit gutta
Phrygiumque Matris Almo qua lavat ferrum,
Horatiorum qua viret sacer campus
et qua pusilli fervet Herculis fanum,
Faustine, plena Bassus ibat in reda,
omnis beati copias trahens ruris.
Dove Porta Capena tutta gocciola
E l'Almone della Grande Madre lava il ferro Frigio
e verdeggia il camposanto degli Orazi
e si calcina al sole il tempietto di Ercole bambino,
caro Faustino, passava Basso sopra un calesse carico,
portando ogni grazia di Dio che offre la campagna.
illic videres frutice nobili caules
et utrumque porrum sessilesque lacturas
pigroque ventri non inutiles betas;
illic coronam pinguibus gravem turdis
leporemque laesum Gallici canis dente
nondumque victa lacteum faba porcum.
nec feriatus ibat ante carrucam,
sed tuta faeno cursor ova portabat.
Vrbem petebat Bassus? immo rus ibat
Ci avresti visto cavoli di cespo nobile,
e porri di entrambe le specie, lattughe alla fogliona,
e le biete, gioia dei ventri pigri;
e una corona di grassissimi tordi,
e una lepre morsa da cane francese,
e un porcellino da latte che non può ancora mangiare fave
e il servo che correva davanti alla carrozza non era a mani vuote:
dentro il fieno portava uova.
Basso si dirigeva in città? Invece andava in campagna.

Nota di Paolo Grassi:

L'epigramma si commenta da solo. Tanto più se si prende in considerazione quanto scrisse Lorenzo Quilici (in "Capitolium", 9-10, settembre-ottobre 1968) riferendosi in generale alle ville dei ricchi romani e, in particolare, a quella di Erode Attico sull'Appia.

«La villa non era un'accolta di grandi edifici e non rispondeva solo al carattere del fastoso e del monumentale, nè era soltanto il luogo dove, all'ombra del parco, si potevano dimenticare nell'ozio e nella pace della natura le contese politiche ed il frastuono cittadino, compiacendosi tranquillamente di bere vino pregiato e componendo versi; ma era il luogo dove si poteva dar prova delle proprie capacità pratiche, oltreché industriali: la villa era una vera e propria azienda agricola, per il mantenimento del proprietario e della sua corte e dove, accanto alla villa di rappresentanza, c'erano la vera azienda, il terreno coltivato, gli orti soprattutto, i frutteti, gli oliveti, i vigneti, boschi, prati, uccelliere, recinti per il bestiame, peschiere, in cui si coltivava e si allevava quanto la natura vegetale od animale offriva di più ricercato e saporito».

Chissà se Basso, uscendo da Porta Capena, imboccò poi la via Appia o la via Latina? Quali fornitori aveva in città? Dove avrà avuto questo personaggio del primo impero il suo malfornito podere?


Tito Livio

AB VRBE CONDITA
Liber I, 19

[19] [...] Clauso eo cum omnium circa finitimorum societate ac foederibus iunxisset animos, positis externorum periculorum curis, ne luxuriarent otio animi quos metus hostium disciplinaque militaris continuerat, omnium primum, rem ad multitudinem imperitam et illis saeculis rudem efficacissimam, deorum metum iniciendum ratus est. Qui cum descendere ad animos sine aliquo commento miraculi non posset, simulat sibi cum dea Egeria congressus nocturnos esse; eius se monitu quae acceptissima dis essent sacra instituere, sacerdos suos cuique deorum praeficere

Così facendo, però [cioè chiudendo il tempio dedicato a Giano, che veniva aperto in tempo di guerra e chiuso in tempo di pace], si correva il rischio che animi resi vigili dalla disciplina militare e dalla continua paura del nemico si rammollissero in un ozio pericoloso. Per evitarlo egli [il re Numa Pompilio] pensò che la prima cosa da fare fosse instillare in essi il timore reverenziale per gli dei, espediente efficacissimo nei confronti di una massa ignorante e ancora rozza in quei primi anni. Dato che non poteva penetrare nelle loro menti senza far ricorso a qualche racconto prodigioso, si inventò di avere degli incontri notturni con la dea Egeria e riferì che quest'ultima lo avesse esortato a istituire dei rituali sacri particolarmente graditi agli dei, nonché a preporre a ciascuno di essi certi officianti specifici.

AB VRBE CONDITA
Liber XXIX, 11-14

[11] Nullasdum in Asia socias ciuitates habebat populus Romanus; tamen memores Aesculapium quoque ex Graecia quondam hauddum ullo foedere sociata ualetudinis populi causa arcessitum, tunc iam cum Attalo rege propter commune aduersus Philippum bellum coeptam amicitiam esse --facturum eum quae posset populi Romani causa--, legatos ad eum decernunt M. Ualerium Laeuinum qui bis consul fuerat ac res in Graecia gesserat, M. Caecilium Metellum praetorium, Ser. Sulpicium Galbam aedilicium, duos quaestorios Cn. Tremelium Flaccum et M. Ualerium Faltonem. iis quinque naues quinqueremes ut ex dignitate populi Romani adirent eas terras ad quas concilianda maiestas nomini Romano esset decernunt. legati Asiam petentes protinus Delphos cum escendissent, oraculum adierunt consulentes ad quod negotium domo missi essent perficiendi eius quam sibi spem populoque Romano portenderet. responsum esse ferunt per Attalum regem compotes eius fore quod peterent: cum Romam deam deuexissent, tum curarent ut eam qui uir optimus Romae esset hospitio exciperet. Pergamum ad regem uenerunt. is legatos comiter acceptos Pessinuntem in Phrygiam deduxit sacrumque iis lapidem quam matrem deum esse incolae dicebant tradidit ac deportare Romam iussit. praemissus ab legatis M. Ualerius Falto nuntiauit deam apportari; quaerendum uirum optimum in ciuitate esse qui eam rite hospitio acciperet. Q. Caecilius Metellus dictator ab consule in Bruttiis comitiorum causa dictus exercitusque eius dimissus, magister equitum L. Ueturius Philo. comitia per dictatorem habita. consules facti M. Cornelius Cethegus P. Sempronius Tuditanus absens cum prouinciam Graeciam haberet. praetores inde creati Ti. Claudius Nero M. Marcius Ralla L. Scribonius Libo M. Pomponius Matho. comitiis peractis dictator sese magistratu abdicauit.

Ludi Romani ter, plebeii septiens instaurati. curules erant aediles Cn. et L. Cornelii Lentuli. Lucius Hispaniam prouinciam habebat; absens creatus absens eum honorem gessit. Ti. Claudius Asellus et M. Iunius Pennus plebeii aediles fuerunt. aedem Uirtutis eo anno ad portam Capenam M. Marcellus dedicauit septimo decimo anno postquam a patre eius primo consulatu uota in Gallia ad Clastidium fuerat. et flamen Martialis eo anno est mortuus M. Aemilius Regillus.

[12] Neglectae eo biennio res in Graecia erant. itaque Philippus Aetolos desertos ab Romanis, cui uni fidebant auxilio, quibus uoluit condicionibus ad petendam et paciscendam subegit pacem. quod nisi omni ui perficere maturasset, bellantem eum cum Aetolis P. Sempronius proconsul, successor imperii missus Sulpicio cum decem milibus peditum et mille equitibus et triginta quinque rostratis nauibus, haud paruum momentum ad opem ferendam sociis, oppressisset. uixdum pace facta nuntius regi uenit Romanos Dyrrachium uenisse Parthinosque et propinquas alias gentes motas esse ad spem nouandi res Dimallumque oppugnari. eo se auerterant Romani ab Aetolorum quo missi erant auxilio, irati quod sine auctoritate sua aduersus foedus cum rege pacem fecissent. ea cum audisset Philippus ne qui motus maior in finitimis gentibus populisque oreretur magnis itineribus Apolloniam contendit, quo Sempronius se receperat misso Laetorio legato cum parte copiarum et quindecim nauibus in Aetoliam ad uisendas res pacemque si posset turbandam. Philippus agros Apolloniatium uastauit et ad urbem admotis copiis potestatem pugnae Romano fecit; quem postquam quietum muros tantummodo tueri uidit, nec satis fidens uiribus ut urbem oppugnaret et cum Romanis quoque, sicut cum Aetolis, cupiens pacem si posset, si minus, indutias facere, nihil ultra inritatis nouo certamine odiis in regnum se recepit.

Per idem tempus taedio diutini belli Epirotae temptata prius Romanorum uoluntate legatos de pace communi ad Philippum misere, satis confidere conuenturam eam adfirmantes si ad conloquium cum P. Sempronio imperatore Romano uenisset. facile impetratum--neque enim ne ipsius quidem regis abhorrebat animus--ut in Epirum transiret. Phoenice urbs est Epiri; ibi prius conlocutus rex cum Aeropo et Derda et Philippo, Epirotarum praetoribus, postea cum P. Sempronio congreditur. adfuit conloquio Amynander Athamanum rex, et magistratus alii Epirotarum et Acarnanum. primus Philippus praetor uerba facit et petit simul ab rege et ab imperatore Romano ut finem belli facerent darentque eam Epirotis ueniam. P. Sempronius condiciones pacis dixit ut Parthini et Dimallum et Bargullum et Eugenium Romanorum essent, Atintania, si missis Romam legatis ab senatu impetrasset, ut Macedoniae accederet. in eas condiciones cum pax conueniret, ab rege foederi adscripti Prusia Bithyniae rex, Achaei Boeoti Thessali Acarnanes Epirotae: ab Romanis Ilienses, Attalus rex, Pleuratus, Nabis Lacedaemoniorum tyrannus, Elei Messenii Athenienses. haec conscripta consignataque sunt, et in duos menses indutiae factae donec Romam mitterentur legati ut populus in has condiciones pacem iuberet; iusseruntque omnes tribus, quia uerso in Africam bello omnibus aliis in praesentia leuari bellis uolebant. P. Sempronius pace facta ad consulatum Romam decessit.

[13] M. Cornelio P. Sempronio consulibus--quintus decimus is annus belli Punici erat--prouinciae Cornelio Etruria cum uetere exercitu, Sempronio Bruttii ut nouas scriberet legiones decretae: praetoribus M. Marcio urbana, L. Scribonio Liboni peregrina et eidem Gallia, M. Pomponio Mathoni Sicilia, Ti. Claudio Neroni Sardinia euenit. P. Scipioni cum eo exercitu, cum ea classe quam habebat, prorogatum in annum imperium est; item P. Licinio ut Bruttios duabus legionibus obtineret quoad eum in prouincia cum imperio morari consuli e re publica uisum esset. et M. Liuio et Sp. Lucretio cum binis legionibus quibus aduersus Magonem Galliae praesidio fuissent prorogatum imperium est, et Cn. Octauio ut cum Sardiniam legionemque Ti. Claudio tradidisset ipse nauibus longis quadraginta maritimam oram, quibus finibus senatus censuisset, tutaretur. M. Pomponio praetori in Sicilia Cannensis exercitus duae legiones decretae; T. Quinctius Tarentum, C. Hostilius Tubulus Capuam pro praetoribus, sicut priore anno, cum uetere uterque praesidio obtinerent. de Hispaniae imperio, quos in eam prouinciam duos pro consulibus mitti placeret latum ad populum est. omnes tribus eosdem L. Cornelium Lentulum et L. Manlium Acidinum pro consulibus, sicut priore anno tenuissent, obtinere eas prouincias iusserunt. consules dilectum habere instituerunt et ad nouas scribendas in Bruttios legiones et in ceterorum--ita enim iussi ab senatu erant--exercituum supplementum.

[14] Quamquam nondum aperte Africa prouincia decreta erat occultantibus id, credo, patribus ne praesciscerent Carthaginienses, tamen in eam spem erecta ciuitas erat in Africa eo anno bellatum iri finemque bello Punico adesse. impleuerat ea res superstitionum animos, pronique et ad nuntianda et ad credenda prodigia erant; eo plura uolgabantur: duos soles uisos, et nocte interluxisse, et facem Setiae ab ortu solis ad occidentem porrigi uisam: Tarracinae portam, Anagniae et portam et multis locis murum de caelo tactum: in aede Iunonis Sospitae Lanuui cum horrendo fragore strepitum editum. eorum procurandorum causa diem unum supplicatio fuit, et nouendiale sacrum quod de caelo lapidatum esset factum. eo accessit consultatio de matre Idaea accipienda, quam, praeterquam quod M. Ualerius unus ex legatis praegressus actutum in Italia fore nuntiauerat, recens nuntius aderat Tarracinae iam esse. haud paruae rei iudicium senatum tenebat qui uir optimus in ciuitate esset; ueram certe uictoriam eius rei sibi quisque mallet quam ulla imperia honoresue suffragio seu patrum seu plebis delatos. P. Scipionem Cn. filium eius qui in Hispania ceciderat, adulescentem nondum quaestorium, iudicauerunt in tota ciuitate uirum bonorum optimum esse.--id quibus uirtutibus inducti ita iudicarint, sicut traditum a proximis memoriae temporum illorum scriptoribus libens posteris traderem, ita meas opiniones coniectando rem uetustate obrutam non interponam. P. Cornelius cum omnibus matronis Ostiam obuiam ire deae iussus; isque eam de naue acciperet et in terram elatam traderet ferendam matronis. postquam nauis ad ostium amnis Tiberini accessit, sicut erat iussus, in salum naue euectus ab sacerdotibus deam accepit extulitque in terram. matronae primores ciuitatis, inter quas unius Claudiae Quintae insigne est nomen, accepere; cui dubia, ut traditur, antea fama clariorem ad posteros tam religioso ministerio pudicitiam fecit. eae per manus, succedentes deinde aliae aliis, omni obuiam effusa ciuitate, turibulis ante ianuas positis qua praeferebatur atque accenso ture precantibus ut uolens propitiaque urbem Romanam iniret, in aedem Uictoriae quae est in Palatio pertulere deam pridie idus Apriles; isque dies festus fuit. populus frequens dona deae in Palatium tulit, lectisterniumque et ludi fuere, Megalesia appellata.


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