Benvenuto nel Parco della Caffarella!

Questo nastro contiene una visita guidata in 13 tappe proposta dal Comitato per il Parco della Caffarella.

La durata del nastro è di 45 minuti; la passeggiata, che è lunga circa 3,5 km, dura normalmente due o tre ore. Ad ogni sosta ascolterai una descrizione del patrimonio storico archeologico del Parco, con alcune indicazioni di carattere naturalistico; puoi riascoltare più volte semplicemente riavvolgendo il nastro. Quando riceverai le istruzioni per passare alla tappa successiva, premi il tasto "STOP" e segui il percorso indicato; riprenderai l'ascolto quando sarai arrivato.

Le tappe sono segnate sulla carta della Caffarella con un numero.

La passeggiata inizia dal Punto Informativo del Parco di largo Tacchi Venturi. Osserva davanti a te: la valle della Caffarella è quasi al centro di Roma, eppure è un'oasi dagli straordinari valori paesistici, archeologici ed ecologici; i prati, i monumenti, i casali, i boschetti, gli stagni formano un complesso unitario e inestimabile del quale metteremo in evidenza le caratteristiche più importanti. La prima tappa è agli scavi della via Latina; segui la via Latina verso sinistra per 200 metri; ora premi "STOP" e riprendi l'ascolto quando sarai arrivato al tratto di via Latina con il selciato antico.

Sosta n. 1: la via Latina

Eccoci all'antico basolato della via Latina; la via Latina è una via naturale e antichissima per il Sud che parte dalla valle del Tevere, sale verso i Colli Albani e riscende lungo le valli del Sacco e del Liri. Il percorso era già in uso durante l'età eneolitica 2000 anni prima di Cristo, ed era strategico per Roma; quando i Romani riuscirono a sottomettere i popoli ostili sui Colli Albani, divennero i padroni incontrastati di tutto il Lazio meridionale.

Subito dopo Roma diresse le proprie mire alla conquista della Campania e della Lucania; per questo motivo tra il 328 a.C. ed il 312 a.C. l'antico tracciato fu potenziato e ristrutturato in ghiaia e terra battuta e fu chiamato via Latina perché attraversava il territorio abitato dai popoli latini.

Più tardi, siamo nel III sec. a.C., uno sforzo straordinario fu dedicato alla rettificazione e alla pavimentazione della strada; sforzo reso ancora più difficile dalle notevoli asperità del terreno: se per esempio guardiamo verso i Colli Albani, il tratto in cui siamo ora è un unico rettifilo fino alla città di Grottaferrata lungo 15 km, e nel punto dal quale siamo partiti c'era un viadotto alto 7 metri.

La via Latina fu costruita seguendo i criteri delle moderne autostrade; l'obiettivo degli ingegneri romani era arrivare il più rapidamente possibile alla città di Capua, che era la meta finale. Le città lungo il percorso erano collegate attraverso svincoli e diramazioni, proprio come fa oggi l'autostrada del Sole. Un viaggiatore comune, a piedi, percorreva i 191 km da Roma a Capua in cinque giorni.

Osserviamo la strada; qui la sede lastricata è larga 4 metri, per permettere a due carri di incrociarsi. Vicino alle scale si nota bene anche il solco nelle pietre prodotto dall'intenso traffico di veicoli. I basoli verticali che delimitano la strada sono dei paracarri che impedivano ai carri di salire sul marciapiede. I marciapiedi erano infatti riservati ai pedoni ed erano posti ai lati di tutte le strade romane; la larghezza totale della strada superava quindi i dieci metri. Torniamo indietro di qualche passo; nel punto in cui la fila dei "paracarri" si interrompe vediamo alcuni basoli messi orizzontalmente; è un "passo carrabile" che consentiva ai carri di salire sul marciapiede per le operazioni di carico e scarico.

Proprio qui, sotto al basolato gli archeologi hanno scoperto una strada tagliata direttamente nel tufo e ricoperta di terra battuta. E' quindi una traccia della ristrutturazione avvenuta tra il 328 e il 312 a.C., e testimonia che i Romani usano questo tratto di strada da almeno 2300 anni!

Dentro la recinzione ci sono una serie di tombe che vanno dal IV secolo a.C. fino al III d.C.; sulla sinistra, vicino alle scale, vediamo la base quadrata del nucleo in calcestruzzo di un sepolcro a pilastro, e restano alcuni dei blocchi di rivestimento in peperino; questo è un tipo di tomba che risale al periodo repubblicano. Al centro, sotto la tettoia, vediamo i resti di un sepolcro rettangolare; le pareti laterali sono curve e dovevano accogliere degli arcosoli, che sono dei nicchioni adatti per un sarcofago; la tecnica costruttiva è una fila di mattoni sopra una fila di blocchetti di tufo e così via e si chiama opera listata, ed è tipica del II-III sec. d.C.; tra questa tomba e la strada si vede per terra una cassa di terracotta cementata nel terreno; è sepoltura povera, che risale probabilmente al II-III sec. d.C.

Saliamo le scale; qui troviamo il nucleo, in calcestruzzo e scaglie di tufo, di un piccolo sepolcro a pilastro. Il nucleo conserva ancora l'impronta del rivestimento, che poteva essere formato da blocchi di tufo, travertino o marmo. Si vede che il calcestruzzo è diviso in strati di 60-90 cm, perché l'architetto preparava prima una cassaforma con il primo filare di blocchi, che era la cornice esterna, poi colava all'interno il calcestruzzo e aspettava che si solidificava, quindi alzava il secondo ordine di blocchi e così man mano veniva alzato il monumento. Il rivestimento esterno naturalmente non era fatto solo di blocchi ma anche di cornici, di sculture, di pitture di cui oggi non rimane più nulla.

Entriamo in Caffarella dall'ingresso accanto al sepolcro; la seconda tappa è alla sommità della collinetta dietro al campo sportivo; ora premi "STOP" e riprendi l'ascolto quando sarai arrivato.

Sosta n. 2: agricoltura in Caffarella

Sopra la collina troviamo solo una piccola parte di una enorme cisterna rotonda a cielo aperto; la costruzione è gigantesca: il muro perimetrale ha un diametro interno di quasi 30 metri.

Questa cisterna raccoglieva la pioggia per irrigare i campi, o forse per allevare pesci d'acqua dolce. Pensiamo che durante l'Impero non c'erano frigoriferi, e quindi sfamare una città superiore al milione di abitanti era uno dei problemi maggiori; mentre il grano si importava facilmente dall'Africa, gli ortaggi e la frutta dovevano essere colti la sera o addirittura la notte e portati al mercato la mattina, quindi tutta la zona intorno a Roma era coltivata intensivamente.

La Caffarella è fertilissima, ricca d'acqua e dal clima favorevole, e fu occupata dalle ville di ricchi personaggi che avevano qui sia la residenza che l'azienda agricola. La produzione seguiva veri criteri industriali: la valle fu attrezzata con un complesso sistema di canalizzazione delle acque, con terrazzamenti, fabbricati, pozzi e cunicoli per il drenaggio del terreno. Numerose cisterne erano utilizzate sia per irrigare i campi, sia per fornire di acqua le ville padronali. Le ville più grandi avevano addirittura l'allevamento di uccelli, lepri e anche pesci, che rifornivano i grandi banchetti pubblici e le mense dei privati.

Nel Medioevo la Caffarella è stata coltivata solo nelle parti protette, come per esempio la zona vicina alla città, che era protetta dalle Mura Aureliane, oppure la zona vicino alla tomba di Cecilia Metella, che vediamo all'orizzonte, dopo che la tomba fu trasformata in fortezza.

La valle tornò una azienda agricola vera e propria intorno alla metà del '500 con la famiglia dei Caffarelli; i Caffarelli erano famosi per aver ospitato l'imperatore Carlo V con grande fasto; acquistarono la valle da vari proprietari, bonificarono e resero produttiva la valle dopo secoli di abbandono, spurgarono i ruscelli che ristagnavano e crearono la canalizzazione che esiste ancora; poi piantarono lunghi filari di alberi dando alla valle l'aspetto moderno. Da allora questo luogo ha il nome di Caffarella.

Quello davanti a noi è il casale Tarani, un edificio costruito nel '600 per uso agricolo. Scendiamo ai piedi del casale e seguiamo via della Caffarella fino ad arrivare di fronte al casale della Vaccareccia. Mentre scendiamo, osserviamo la facciata del casale Tarani: più o meno al centro della facciata, in bella evidenza, si vede lo stemma dei Torlonia, proprietari della valle sin dal 1816. Ora premi "STOP" e riprendi l'ascolto quando sarai arrivato.

Sosta n. 3: la Vaccareccia

L'opera più importante della famiglia Caffarelli fu la costruzione, nel 1547, della Vaccareccia; è uno splendido casale ancora attivo. Nel casale è inglobata una torre medievale. La torre fu costruita nel XIII-XIV secolo con blocchetti di tufo parallelepipedi e scaglie di marmo. In origine era molto più alta, e controllava tutta la tenuta fino alla via Latina.

La parte superiore del casale ha a sinistra una grande aia con un bel portico su colonne antiche; al centro c'è la casa dei contadini, con il tetto a spiovente e la loggia del '500, e a destra ha il fienile, in un corpo unico rinforzato da robusti muri di sostegno. Nel 1816 la Caffarella fu acquistata dalla famiglia Torlonia, che ristrutturò la Vaccareccia, aggiunse la grande stalla lungo il lato sinistro e bonificò il fondovalle per l'ultima volta. Numerosi edifici mostrano lo stemma della casata, che raffigura una corona con due comete. Di fronte alla Vaccareccia c'è un bel fontanile al quale si abbeveravano le bestie.

Ora proseguiamo lungo via della Caffarella fino al secondo ponte, che scavalca il corso d'acqua centrale. Premi "STOP" e riprendi l'ascolto quando sarai arrivato.

Sosta n. 4: il fiume Almone

Questo è il fiume Almone, che era identificato dai Romani con un dio; per le conoscenze dell'epoca, acqua o siccità erano dovute alla volontà del dio del fiume, che andava blandito in modo opportuno. Il 27 marzo di ogni anno il fiume era protagonista della importante cerimonia religiosa della "Lavatio Matris Deum": dal tempio sul Palatino partiva una solenne processione che portava la pietra sacra alla Magna Mater fino al punto in cui le acque dell'Almone sfociano nel Tevere, e lì si purificavano nell'acqua del fiume l'immagine sacra e gli arnesi del culto.

La Magna Mater sarebbe la Grande Madre, cioè la dea Cibele. Il culto della Magna Mater ebbe origine al tempo della II guerra punica. I Romani erano terrorizzati dalle incursioni di Annibale, e trovarono una profezia nei Libri Sibillini che diceva: "Se un nemico straniero avrà portato la guerra in Italia, sarà cacciato e vinto solo se la Magna Mater sarà trasportata da Pessinunte a Roma". Immediatamente i Romani inviarono una missione a Pessinunte (in Turchia), nel regno di re Attalo, amico dei Romani sia per la leggenda della comune origine nella città di Troia che per una alleanza militare.

Dal grande tempio della Magna Mater gli ambasciatori riportarono a Roma una pietra sacra da collocare nel tempio costruito apposta sul Palatino. L'oracolo aveva assicurato la benedizione della dea purché "ad accoglierla fossero l'uomo migliore e la donna più virtuosa della città". L'uomo fu Scipione Nasica, parente del grande Scipione l'Africano, mentre la donna fu Claudia Quinta, appartenente ad una delle più nobili famiglie di Roma e figlia e sorella di consoli. Tuttavia pare che la nave che trasportava la pietra, appena arrivata alla confluenza del Tevere con l'Almone, si incagliò; il prodigio fu accolto male dalla folla, e già circolavano voci sulla reputazione di Claudia Quinta, sul suo abbigliamento, sull'eleganza dell'acconciatura, sulla lingua troppo pronta, ecc. ecc. che la povera donna, non si sa bene come, riuscì a disincagliare la nave tirandola con una corda; da allora ogni anno fu ripetuta la cerimonia fino al 389 d.C., quando fu abolita perché incompatibile con la nuova religione cristiana.

Sempre lungo le sponde dell'Almone, ma stavolta proprio nel fondovalle della Caffarella, alle "idi di luglio" di ogni anno i cavalieri romani svolgevano delle celebri cavalcate in onore del dio Marte, in ricordo della battaglia del lago Regillo avvenuta nel 493 a.C..

Oggi le acque dell'Almone si raccolgono al centro della valle insieme a quelle dei ruscelli vicini, percorrono tutta la Caffarella, passano sotto la via Appia Antica, e infine vengono convogliate nella fogna diretta al depuratore di Roma-Sud.

Prosegui lungo via della Caffarella; alla fine del rettifilo gira a destra fino a vedere, attraverso un cancello, il tempio del dio Redicolo. Ora premi "STOP" e riprendi l'ascolto quando sarai arrivato.

Sosta n. 5: il tempio del dio Redicolo

Questo è uno dei più bei monumenti esistenti a Roma, ammirato e studiato dagli architetti del Rinascimento Antonio da Sangallo e Baldassarre Peruzzi, disegnato nel Settecento dal Piranesi e dal Labruzzi.

E' il cosiddetto tempio del dio Redicolo, che significa "dio del ritorno" (dal verbo latino rèdeo). Il viaggiatore che doveva affrontare un viaggio lungo e pericoloso, verso luoghi lontani come l'Egitto, la Grecia o l'Oriente, prima di partire si rivolgeva a questo dio; anche i viaggiatori che tornavano si fermavano qui a ringraziare. Il dio Redicolo godeva poi di una fama terribile: si racconta che Annibale, dopo la battaglia di Canne, percorse la via Appia Antica arrivando fino alle porte di Roma; qui il dio Redicolo gli apparve in sonno, in maniera così spaventosa da indurlo a tornare indietro con tutto l'esercito.

In realtà non conosciamo con precisione la posizione del tempio, e se oggi molti pensano che sia questo edificio lo si deve a un errore degli studiosi del settecento. In realtà questa è una tomba romana, che presenta la tipica architettura dei sepolcri a tempietto della seconda metà del II sec. d.C.

La tomba ha due piani: il piano superiore è illuminato dalle finestre rettangolari, dove si svolgevano i riti funebri; il piano inferiore prende luce dalle piccole finestre a feritoia, ed è la camera funeraria.

Il paramento è in laterizio policromo ottenuto con mattoni gialli per le pareti e tegole rosse nelle modanature. Dobbiamo ammirare soprattutto la raffinatezza delle decorazioni; la più decorata è la parete Sud, forse perché si affacciava su una strada che collegava via Latina con via Appia Antica.

I Romani desideravano infatti conservare dopo la morte il ricordo dei vivi, e oltre a costruire tombe monumentali, ornate di marmi, mosaici, pitture, statue, cercavano di collocare i sepolcri lungo le strade.

La parete Sud è divisa in tre parti da due semicolonne ottagonali; al centro si vede una finestra rettangolare con una bella cornice sorretta da mensole che formano una specie di baldacchino, mentre ai lati ci sono due vani rettangolari con ricche cornici, che contenevano le iscrizioni in marmo con il nome e la vita del defunto; in basso corre una fascia a meandro. Degli eleganti capitelli sorreggono una trabeazione accuratissima.

L'ingresso principale è sul lato verso il fiume Almone, e ci andiamo; lì una gradinata conduce al piano superiore, formando davanti alla porta un podio largo tre metri. Sopra la porta principale, una nicchia semicircolare è sormontata da un timpano ad angolo molto acuto, ed è fiancheggiata da due finestre la cui cornice superiore è sorretta da mensole.

Alcuni hanno attribuito questa tomba ad Annia Regilla, la sfortunata moglie di Erode Attico; tuttavia l'interno accoglie varie nicchie, quindi la tomba appartenne a più persone, forse riunite in cooperativa.

Il discreto stato di conservazione si deve ai contadini che la riutilizzarono come fienile, garantendo così un minimo di manutenzione.

Il casale del '600 dovrebbe contenere le fondamenta di una delle torri di controllo della valle. Si chiamava "Turris valcha acta ad valchandum", cioè per fare il bucato; infatti intorno all'anno 1000, nel fondovalle della Caffarella vennero impiantate le cosiddette valche, una specie di mulini ad acqua destinati alla lavorazione e al lavaggio dei panni di lana; questo genere di industria potrebbe essere di origine longobarda, dato che il nome deriva dal verbo "walkan", cioè "rotolare", riferito ai rulli che lavoravano i panni.

Nel 1872 nel casale fu impiantata una mola per la macinazione di grano e granturco; la si vede guardando attraverso il buco della serratura della porta di fronte all'ingresso principale del sepolcro; la forza motrice che doveva far girare la mola era assicurata grazie alla costruzione di un acquedotto, che captava l'acqua dal fiume a monte, percorreva tutta la Caffarella, per poi arrivare fino a qui. L'acquedotto risultò subito difettoso per errore di progettazione, e se ne vedono alcune arcate nel muro laterale che chiude il giardino.

Ora seguiamo il tracciato di questo acquedotto. Ritorna indietro lungo via della Caffarella, e arrivato al rettifilo della Vaccareccia, anziché girare a sinistra verso il casale prosegui dritto fino a raggiungere la sorgente che sulla sinistra crea un piccolo corso d'acqua. Ora premi "STOP" e riprendi l'ascolto quando sarai arrivato.

Sosta n. 6: le acque e la vegetazione della Caffarella

L'Almone riceve oggi i contributi idrici di decine di sorgenti, di cui una quindicina sgorgano all'aperto proprio nella nostra valle; la ricchezza di sorgenti è dovuta alla differente permeabilità dei terreni vulcanici che dà all'acqua caratteristiche "medio-minerali" e di sapore acidulo.

Se osserviamo i due versanti della valle vediamo che sono distanti tra i 300 e i 500 m; questo indica una modificazione nel tempo della morfologia della valle. Si ritiene che tra 80.000 e 10.000 anni fa, durante la glaciazione di Würm, l'Almone abbia eroso il materiale vulcanico scavandosi un alveo profondo quasi 100 metri, una specie di canyon; finita la glaciazione il fiume si mise invece a depositare sedimenti, e riempì l'alveo che aveva scavato; alla fine il fiume cominciò a scorrere in ampi meandri, che erosero i versanti, e li allontanarono sempre più fino alla distanza attuale. Oggi il fiume, nonostante l'inquinamento dell'acqua, ha una ricca vegetazione di canne, salici, giunchi ed equiseti; lungo le sponde saltano rane e rospi, strisciano biscie e salamandre; nel cielo volano i beccaccini e le ballerine.

Il boschetto di aceri e querce in cui siamo entrati ospita un folto sottobosco di pungitopo, corniolo, prugnolo, melo e pero selvatico, rosa canina e sambuco; mentre cammini, ascolta: risuona il canto di passeri, verdoni, verzellini, cinciallegre, capinere, merli, pettirossi, cardellini, strillozzi o l'improvviso chiocciare del fagiano. Fa' attenzione anche al cielo: potresti vedere volteggiare il beccamoschino, l'allodola ed il gheppio; il gheppio non è l'unico dei predatori della valle; anche alcune volpi hanno qui la tana. Volpi, gheppi e rapaci notturni ci rendono il prezioso servizio di eliminare i topi ed i ratti attirati dai rifiuti abbandonati.

Ora riprendi il sentiero fino a raggiungere la passerella che entra nel ninfeo di Egeria. Premi "STOP" e riprendi l'ascolto quando sarai arrivato.

Sosta n. 7: il ninfeo di Egeria

Appena finito di restaurare, ecco il cosiddetto ninfeo di Egeria. Il nome "ninfeo" indicava anticamente un luogo sacro alle ninfe, divinità protettrici delle sorgenti. La ninfa Egeria era una delle "Camene", divinità minori legate alle acque e alle sorgenti, così come Almone era il dio del fiume. Le Camene ricambiavano le offerte di acqua e latte concedendo profezie; il sacerdote si avvicinava alla sorgente, e ascoltando il gorgoglio dell'acqua riusciva a interpretare il messaggio della dea. Le Camene accompagnavano eroi o personaggi importantissimi, così Egeria si legò alle origini stesse di Roma sposando il secondo Re di Roma Numa Pompilio. Secondo la leggenda essi si incontravano in questo luogo, e mentre facevano l'amore la ninfa ispirava il Re nel comporre le leggi e l'ordinamento religioso della Roma primitiva. In realtà la sorgente di Egeria era al primo miglio fuori le Mura Repubblicane, nei pressi delle Terme di Caracalla. Ma gli studiosi del '600-'700 confondevano le Mura Repubblicane con le Mura Aureliane e così, calcolando male, giunsero a questo ninfeo, che chiamarono "di Egeria".

Se osserviamo l'edificio riconosciamo una grande stanza rettangolare con una nicchia nel fondo e tre nicchie più piccole ai lati. La tecnica costruttiva è l' "opus mixtum" di opera reticolata e laterizio, tipica della metà del II sec. d.C.. L'interno dobbiamo immaginarcelo riccamente rivestito di marmi: le pareti erano di "verde antico", un marmo pregiato proveniente dalla Tessaglia. Alcuni frammenti sul pavimento accanto alla vasca indicano che il pavimento era di "serpentino", un porfido di colore verde intenso proveniente sempre dalla Grecia vicino Sparta. Le nicchie erano di marmo bianco e infine, tra le nicchie e la volta, vi era una fascia decorata con mosaici. L'ambiente centrale è coperto con la tecnica della volta a botte, sulla quale aderiva uno strato di pietra pomice, allo scopo di far attecchire piantine di capelvenere.

Nella nicchia di fondo la statua coricata è forse il dio Almone; da lì sgorga l'acqua della fontana. La sorgente però non è dietro alla statua, ma è lontana più di 100 metri, ed è condotta fin qui tramite un acquedotto sotterraneo.

Se osserviamo la parete destra, alla base delle nicchie che dovevano essere arricchite da altre statue, vediamo delle tubature di terracotta che incanalavano l'acqua per formare dei giochi d'acqua; l'umidità, condensando nella volta coperta di capelvenere, creava uno stillicidio che rendeva l'ambiente molto fresco e suggestivo. Quindi questo edificio era una grotta artificiale, dove Erode Attico poteva venire in estate per passeggiare, chiacchierare con gli amici o banchettare al fresco.

All'esterno l'acqua entra in una vasca rettangolare, poi scorre sotto il canale alle nostre spalle, che è lo stesso acquedotto ottocentesco che abbiamo visto al tempio del dio Redicolo, e infine si getta nell'Almone.

Ora percorri tutta la passerella e risali la collina che sovrasta il ninfeo fino a raggiungere la chiesa di S. Urbano. Ora premi "STOP" e riprendi l'ascolto quando sarai arrivato.

Sosta n. 8: Erode Attico e S. Urbano

Tiberio Claudio Erode Attico era un personaggio ricchissimo e famosissimo vissuto nel II sec. d.C.; fu rètore, filosofo, precettore degli imperatori Lucio Vero e Marco Aurelio, governatore di una parte dell'Asia e della Grecia. Aveva ereditato le sue ricchezze dal padre che si chiamava anche lui Erode Attico, ateniese che discendeva da una delle più antiche e nobili famiglie dell'Epiro, gli Eacidi, e che vantava fra i suoi antenati addirittura l'eroe Achille.

Si racconta che Erode Attico padre, nonostante le illustri origini, fosse ridotto nella miseria più nera; un giorno nella sua casa di Atene, mentre sbatteva la testa nel muro per la disperazione, si accorse di una cavità nella parete, e quando la esplorò vide che nascondeva un enorme tesoro.

Erode Attico padre divenne improvvisamente il più ricco uomo dell'epoca; scrisse allora all'imperatore Nerva per avere istruzioni, ma l'imperatore rispose semplicemente "usane". Preoccupato che l'imperatore non avesse ben capito, Erode scrisse nuovamente spiegando che il tesoro era veramente grande, enorme, favoloso, e allora Nerva gli rispose "e tu abusane"!

Affascinati dall'episodio gli studiosi dell' '800 ipotizzarono che il tesoro fosse appartenuto nientemeno che al re persiano Serse, che l'avrebbe abbandonato in Grecia dopo la sconfitta di Salamina. Oggi siamo più smaliziati, e spieghiamo questa ricchezza in modo meno fantasioso, attraverso una più concreta speculazione finanziaria: il nonno di Erode fece bancarotta ma, per non pagare i debiti, nascose i beni di famiglia, che ritornarono in circolazione dopo alcuni anni col pretesto del tesoro.

Alla fine, chi usò l'immensa ricchezza fu Erode Attico figlio, che diventò famoso costruendo grandiose opere pubbliche, come per esempio, per chi conosce Atene, lo stadio delle Olimpiadi e l'Odeon sotto l'Acropoli, che ancora oggi si ammirarano.

La moglie di Erode Attico era Annia Regilla, che discendeva dall'antica famiglia degli Annii, e aveva come antenato addirittura quell'Attilio Regolo morto durante la I guerra punica rotolando nella botte con i chiodi. Annia Regilla portò in dote al marito questo fondo, che si estendeva lungo il III miglio della via Appia. Purtroppo la moglie, mentre era incinta del quinto figlio, morì, ed Erode fu accusato dal cognato di averla uccisa con un calcio durante uno scatto di nervi. Per questo Erode subì un clamoroso processo, da cui uscì assolto. Tuttavia l'opinione pubblica mormorava che Erode, con le sue ricchezze, avesse corrotto i giudici, e per smentire queste voci Erode si dette a manifestazioni pazze di lutto: fece dipingere di nero tutta la casa, regalò i gioielli della moglie ai templi degli dei, ed in suo onore ristrutturò tutto il fondo, che chiamò Triopio in ricordo del Triopeion, il famoso santuario che Demetra, aveva nella città di Cnido in Asia minore (l'odierna Turchia). Si racconta infatti che Triopas, re di Tessaglia, aveva osato tagliare la legna di un bosco sacro a Demetra, e per questo era stato punito con una fame insaziabile. Erode sperava che tale ricordo avrebbe tenuto lontani i ladri e i malintenzionati che si fossero avvicinati per rubare o per recare danno. Alla fine, ormai vecchio, Erode ritornò a Maratona, dove morì, all'età di 76 anni.

Eccoci finalmente all'edificio: è un vero tempio romano, costruito intorno al 160 d.C., perfettamente conservato fin nelle tegole del tetto. E' il tempio costruito da Erode Attico per onorare il ricordo della moglie, ed è dedicato alla dea Cerere, che equivale alla Demetra dei Greci, e a Faustina, moglie dell'imperatore Antonino Pio, morta e quindi divinizzata.

In laterizio è non solo il corpo dell'edificio, ma anche la decorazione della facciata, secondo l'uso tipico della metà del II sec. d.C. Questo materiale economico era utilizzato con una raffinatezza quasi virtuosistica.

Le quattro colonne, i capitelli corinzi e l'architrave sono in marmo pentelico, che proveniva dalla Grecia, e le cui miniere appartenevano proprio ad Erode Attico. Il muro fra le colonne è un restauro del 1634, quando nella facciata si era aperta la crepa che si vede in alto, che minacciava di far crollare il tempio.

All'interno una grande sala era la cella, e al posto dell'altare cristiano dovevano esserci le immagini di Cerere e Faustina, e forse anche la statua di Annia Regilla. Questo luogo era riservato al sacerdote, i fedeli rimanevano fuori, davanti alla gradinata del tempio, dove c'era l'altare su cui venivano offerti i doni, animali o frutti della terra. Il soffitto è decorato da una serie di stucchi ottagonali e quadrati; di tutti gli stucchi ottagonali è rimasto miracolosamente proprio quello centrale, che raffigura due persone in rilievo, una delle quali interamente conservata: è una donna nobilmente vestita raffigurata mentre compie un sacrificio; si tratta forse dell'apoteosi di Annia Regilla, che dopo la morte ascende al cielo diventando una divinità.

Alla base della volta si vede un fregio in stucco con armi, corazze e scudi, che indica il rispetto di Erode Attico per l'attaccamento di Annia Regilla alle tradizioni e agli ideali italici.

L'eccezionale stato di conservazione si deve alla trasformazione dell'edificio pagano in chiesa forse già nel VI sec. d.C., dedicata al vescovo S. Urbano.

Gli affreschi delle pareti sono stati firmati da un certo frate Bonizzo nell'anno 1011 e rappresentano le "vite" di S. Cecilia e S. Urbano, episodi tratti dal Vangelo, il martirio di S. Lorenzo e di altri santi non ancora ben identificati. Attraverso una piccola scala si scende nella cripta, in cui si conservavano le reliquie del santo; nella nicchia una rozza pittura raffigura la Madonna con Bambino fra S. Giovanni e S. Urbano, tipica del periodo precedente l'anno 1000.

La collina di fronte alla chiesa di S. Urbano è il cosiddetto Bosco Sacro.

Sosta n. 9: il Bosco Sacro

I tre lecci più vecchi facevano parte del cosiddetto Bosco Sacro, sia perché una volta costituivano un vero e proprio bosco, sia perché furono confusi, sempre per errore, col bosco sacro della ninfa Egeria; possiamo però essere certi che al tempo di Erode Attico il boschetto, data la sacralità del luogo, fosse dedicato a qualche divinità romana. Come tutti i fiumi, le sorgenti e le manifestazioni naturali, anche l'albero per i Romani era sacro, e nelle ville suburbane era frequente la presenza di un bosco sacro. Questo è anche l'unico bosco sacro di cui la tradizione ci dia ininterrottamente notizia sin dal tempo degli antichi Romani.

Se diamo le spalle alla valle vediamo una grossa cisterna per l'irrigazione dei campi. Andiamola a vedere. Ora premi "STOP" e riprendi l'ascolto quando ci sarai arrivato.

Sosta n. 10: la grande cisterna e il mausoleo di Cecilia Metella

Questa cisterna fu costruita nei primi anni dell'Impero (44 a.C.-40 d.C.); vediamo che all'esterno è rettangolare mentre all'interno ha le pareti corte a forma di semicerchio; la volta ha due spioventi che formano un angolo quasi retto; sopra la volta il tetto era piano, ma vi fu costruito un muro perimetrale che aderisce male; questa sopraelevazione però deve essere stata quasi contemporanea, visto che la tecnica costruttiva è la stessa del resto dell'edificio. Il pavimento della cisterna è in coccio pisto, che è un insieme di malta e frammenti di mattoni che forma uno strato impermeabile. Un'ultima curiosità è la muratura senza paramento, che indica che in origine la cisterna non si alzava sulla collina come fa oggi, ma era interrata.

Lo sbancamento del terreno intorno potrebbe essere avvenuto al tempo dell'imperatore Massenzio, cioè tra il 305 e il 312 d.C., per costruire la piattaforma del grande circo che si vede al di là di via Appia Pignatelli; i blocchi di tufo alla base della cisterna furono collocati proprio dopo lo sbancamento, per rinforzare l'edificio che altrimenti poteva crollare.

All'orizzonte si vede la tomba di Cecilia Metella. E' costituita da una base a pianta rettangolare alta 8 metri con sopra un cilindro. Della base rimane solo il nucleo in calcestruzzo, mentre il cilindro, alto ben 11 metri, è ancora rivestito di travertino; la forma è quella del mausoleo di tradizione ellenistica, che proprio in quel periodo raggiungeva a Roma la massima diffusione. Sul tamburo un fregio in marmo pentelico rappresenta dei crani bovini sormontati da festoni di foglie e frutta, e una iscrizione ricorda Cecilia Metella. La tomba fu utilizzata come fortificazione sin dal periodo bizantino. Nell' XI sec. i Conti di Tuscolo inglobarono la tomba in un fortilizio che scavalcava la via Appia Antica, mentre alla fine del XIII sec., grazie all'influenza di papa Bonifacio VIII, la zona divenne di proprietà dei Caetani, che costruirono accanto alla tomba il palazzo baronale.

Perché la tomba di Cecilia Metella è importante per la Caffarella? Perché possedere Cecilia Metella significava controllare anche la valle dell'Almone, nella quale nel medioevo furono costruite almeno cinque torri.

Raggiungiamo adesso una di queste torri. Scendi dalla collina e torna al sentiero di fondovalle, che devi seguire fino alla torre sul fiume Almone. Ora premi "STOP" e riprendi l'ascolto quando sarai arrivato.

Sosta n. 11: la Torre-ponte

Questa torre è costruita in blocchetti di tufo parallelepipedi, e quindi risale al XII-XIII sec. Sorge proprio qui perché in questo punto controllava un ponte antico, che collegava la via Latina con la via Appia Antica.

Per comprendere il significato della torre dobbiamo tornare al X-XI secolo, quando nella campagna romana semi-abbandonata si sviluppò il fenomeno del cosiddetto feudalesimo suburbano; i baroni lottavano tra loro per controllare il territorio, e per questo tra il XII e il XIV secolo furono costruite le torri di difesa, e quindi anche qui, perché il ponte era un punto strategico.

La torre era simile a un piccolo castello. Era protetta da un antemurale, del quale si vedono le fondamenta, e un ponte levatoio portava direttamente al primo piano. La porta era forse dal lato verso il fiume, dove ora c'è un grande crepaccio, mentre un secondo ingresso dal lato opposto permetteva di entrare al piano terra. L'interno era diviso in vari piani separati da ballatoi di legno., tranne il primo e l'ultimo piano che erano coperti da volte in muratura. Alle pareti si vedono i resti delle finestre quadrate per illuminare l'interno e alcune feritoie da cui si lanciavano frecce sugli eventuali nemici.

Queste torri servivano essenzialmente ad avvistare e a segnalare, per cui non conveniva impostare costruzioni massiccie e difficili da realizzare. Al contrario, i blocchetti di tufo permettevano di costruire torri anche di una certa altezza, mentre la gran quantità di materiale consentiva rapidi restauri. L'importanza del basso costo e della rapidità della tecnica costruttiva lo si vede anche dai numerosi fori per le impalcature di legno lasciati in vista dopo la costruzione.

Non bisogna dimenticare che i danni erano in genere lievi, almeno fino all'introduzione delle armi da fuoco. Per chi attaccava non valeva la pena di organizzare un assedio per un edificio di scarsissimo valore offensivo, mentre a chi si difendeva da assalitori armati solo di archi e fionde bastava in fondo una posizione elevata: in caso di penetrazione di nemici si tirava su il ponte levatoio e ci si barricava al primo piano, che aveva il pavimento in muratura. Poi si saliva sul tetto, che essendo in muratura era robusto e non poteva essere incendiato, e da lì si gettavano sassi, olio bollente e tutto quello che bastava per una difesa semplice.

Le torri di questo tipo vennero abbandonate nel XIV-XV secolo per l'introduzione delle armi da fuoco: un colpo di bombarda e addio torre!

Nel terreno sono stati trovati nel 1999 alcuni condotti idraulici, per cui in certi periodi la torre è stata probabilmente sede di una valca.

La prossima tappa è il tempietto che si vede a pochi passi. Ora premi "STOP" e riprendi l'ascolto quando sarai arrivato.

Sosta n. 12: il Colombario Costantiniano

Ci troviamo davanti ad un bel sepolcro chiamato Colombario Costantiniano; "colombario" perché le pareti, occupate da nicchie, danno all'edificio l'aspetto di un allevamento di colombi, e "costantiniano" perché creduto dell'epoca di Costantino cioè circa del 300 d.C.. Gli studi più recenti lo hanno invece fatto risalire all'età degli Antonini, cioè al II sec. d.C., come indica la tipica tecnica in laterizio.

Gli antichi Romani non avevano i nostri cimiteri, che sono posteriori al periodo napoleonico, ma seppellivano i loro morti dove volevano, con l'unico vincolo di seppellire fuori dell'abitato, sulla base della Legge delle XII tavole: "Hominem mortuum in urbe neve sepelito neve urito", cioè "in città i morti non devono essere né cremati né sepolti". Chi possedeva la villa in campagna poteva seppellire i defunti nell'orto di casa, facendo sì che i parenti potessero continuare ogni sera, prima di andare a letto, a dare la buona notte al nonno, allo zio, al bisnonno, a tutti quelli che li avevano preceduti, e di padre in figlio andavano ad occupare poi la tomba di famiglia.

Questo colombario è un tempietto "in antis", cioè con la facciata che presenta i due muri laterali leggermente avanzati formando così due "ante"; sono scomparse le due colonne che in origine si trovavano tra i due muri; lo spazio tra le colonne e la porta formava un piccolo podio coperto da una volta a botte.

Al centro della facciata si apre la porta principale, di cui rimangono gli stipiti.

Si saliva al piano superiore per mezzo di una gradinata esterna di cui vediamo alcuni resti. Nella stanza vi sono tre nicchie nella parete di fondo, una nicchia in ciascuna delle pareti laterali ed un arcosolio per sarcofago nella parete di fondo.

Questa stanza era destinata alle cerimonie funebri, nelle quali i parenti banchettavano ricordando il defunto e pensando che questi partecipasse in spirito e che fosse contento della festicciola familiare. E' una credenza che sopravvive ancora oggi quando portiamo i fiori ai nostri morti.

Nella parete sinistra c'è la porta del piano inferiore, nel quale si deponevano i sarcofagi dei defunti; sopra la porta, all'esterno, si riconosce la traccia dell'incasso per la targa marmorea con il nome del defunto. Infine si notano le finestrelle a bocca di lupo che illuminavano l'interno.

L'esterno era anticamente dipinto di rosso, colore tipico dei casali dell'agro romano. Durante il Medioevo il sepolcro fu trasformato in mulino: il pavimento era già crollato, ed un canale d'acqua entrava dal buco nella parete destra facendo girare una macina orizzontale.

Girando sul retro del Colombario raggiungi il ponte di legno sul fiume Almone, attraversalo e ritorna indietro seguendo il sentiero a mezza costa. Ora premi "STOP" e riprendi l'ascolto quando sarai arrivato vicino alle grandi caverne nelle pareti di tufo.

Sosta n. 13: le cave di pozzolana

La Caffarella è una caratteristica valle fluviale a V con un fiume al centro, la cui storia geologica comincia tra 360 mila e 80 mila anni fa con le esplosioni del Vulcano Laziale.

Il Vulcano Laziale corrisponde più o meno agli attuali Colli Albani; aveva una base di 60 chilometri di diametro ed emise circa 150 chilometri cubi di materiali, che insieme ai prodotti del Vulcano Sabatino riuscirono addirittura a sbarrare l'antico corso del Tevere. Le esplosioni trascinarono fino a 10-15 chilometri di quota chilometri cubi di un'emulsione densissima di gas e polveri incandescenti. Questo "spray" naturale precipitò sulla terra come una valanga di fango bollente e densissimo, distendendosi tutto attorno al luogo di emissione. Queste valanghe di materiale alla temperatura di 400-500 gradi centigradi, chiamate colate piroclastiche, si dispersero muovendosi a velocità anche di 150 chilometri l'ora, distruggendo ogni forma di vita. Si può dire che ora siamo alle pendici del Vulcano, sopra 30-40 metri di materiale espulso. Il suolo è costituito da quattro strati di tufi e pozzolane, come si vede sia lungo le pareti scavate dai corsi d'acqua sia nelle numerose cave. Ancora più sotto ci sono poi antichi sedimenti fluviali e marini.

Nel XIX secolo la Caffarella era sfruttata intensivamente per l'estrazione di pozzolana, e per questo gli altopiani che dominano la valle appaiono molto rovinati per lo sprofondamento di alcune cave. Le voragini oggi si sono riempite di una ricca vegetazione di olmi, fichi, evonimi, sanguinelle.

Ritorno

La passeggiata si conclude qui. Ricorda di tornare per tempo al Punto Informativo a consegnare il nastro e a ritirare il documento.

La nostra è una associazione di volontari che sin dal 1984 si dedica alla difesa della Caffarella con petizioni, esposti e denuncie e alla valorizzazione dell'area con visite guidate, libri, convegni, feste e manifestazioni sportive. Il nostro scopo è la creazione del parco pubblico della Caffarella, e il primo passo è stato nel 2000 la acquisizione dei primi 77 ettari da parte del Comune di Roma. Oggi la maggior parte della Caffarella è ancora di proprietà privata, minacciata da abusi edilizi, discariche e aggressioni all'ambiente, con monumenti importantissimi che rischiano di crollare e non sono visitabili.

Speriamo che vorrai aiutare la nostra associazione a continuare la battaglia per il parco e a farlo conoscere sempre più.

Grazie e torna a visitare il Parco della Caffarella!