Visita guidata nel Parco dell'Appia Antica in compagnia di Giuseppe Gioachino Belli

(condotta da Paolo Grassi e dedicata ad Antonio Cederna)

I belliani di provata fede sono fermamente convinti che nei 2279 sonetti scritti da Belli nella prima metà del secolo scorso ci sia proprio tutto. Li assumono perciò, partigianamente, come enorme patrimonio poetico pronto ad entrare in campo sia come testimonianza d'epoca, sia come rappresentazione degli eterni comportamenti umani, sia come contrappunto pungente o, perfino, profetica chiave di lettura di fatti d'attualità. Essi "condiscono a piene mani, col Belli-prezzemolo, rievocazioni e confronti e profezie" (R. Vighi). Spudoratamente!

Ciò può valere anche per quanto riguarda il parco dell'Appia Antica, che proviamo a percorrere insieme al Poeta, indicando in corsivo i titoli e tra parentesi i numeri dei sonetti, secondo l'edizione integrale curata da Giorgio Vigolo.

Lasciata alle spalle la cinta delle Mura Aureliane e fatto un indispensabile salto indietro nel tempo, prepariamoci spiritualmente ad affrontare Er deserto (1785). Tale, infatti, era l'immagine che colpiva chi doveva attraversare lo spazio immenso, silenzioso e desolato dell'Agro romano, o per intraprendere un lungo viaggio, o solo per raggiungere qualche "precojjo", cioè qualche isolato cascinale. L'animo veniva preso dallo sgomento davanti a quella distesa simile a un immenso mare, in cui lo sguardo poteva solo aggrapparsi ansiosamente agli scogli emergenti, costituiti più che da massi naturali, dai muti sepolcri delle vie consolari, dai ruderi di una civiltà morta, dagli antichi acquedotti inoperosi stagliati all'orizzonte come grandi scheletri. Eccone appunto una testimonianza diretta:

Dio me ne guardi, Cristo e la Madonna
d'annà ppiú ppe ggiuncata a sto precojjo.
Prima... che pposso dí ?... pprima me vojjo
fà ccastrà dda un norcino a la Ritonna.

Fà ddieci mijja e nun vedé una fronna!
Imbatte ammalappena in quarche scojjo!
Dapertutto un zilenzio com'un ojjo,
che ssi strilli nun c'è cchi tt'arisponna!

Dove te vorti una campaggna rasa
come sce sii passata la pianozza
senza manco l'impronta d'una casa!

L'unica cosa sola c'ho ttrovato
in tutt'er viaggio, è stata una bbarrozza
cor barrozzaro ggiú mmorto ammazzato.

La paura del singolo diventava, poi, quella di tutta la collettività, quando sui grandi latifondi incombeva Er cel de bbronzo (1434) e si stendeva il flagello della siccità:

...disce a vvedé le campaggne romane
è un pianto, è un lutto, sò ffraggelli novi.
Li cavalli, le pecore, li bbovi
manco troveno l'acqua a le funtane...

Moreno inzin le bbufole e li bbufoli!
St'anno, si la Madon de la Minerba
nun ce penza, se maggna un par de sciufoli.

Oggi la sensazione di sgomento può derivare da una situazione capovolta: dal fatto che quell'immenso spazio si è ridotto ad un semplice spicchio, noto come il "cuneo verde" del parco dell'Appia Antica, accerchiato dalla cementificazione legale ed abusiva, corroso dal degrado ambientale e aggredito da una pioggia di operazioni inconsulte che alcuni privati proprietari riescono ad intraprendere impunemente. E chi detiene il potere continua ad occuparsi di altri problemi, come quello del gioco delle poltrone, piuttosto che impegnarsi nel grande obiettivo della realizzazione del parco, proprio come avvenne quando ci fu L'asciutta der 34 (1248):

C'è antro da penzà cche a ffà li pianti
perché nnun piove in nell'Agro-romano,
perché la secca manna a mmale er grano,
e pperché mmoriremo tutti quanti.

Questi sò ttutti guai pe l'iggnoranti.
Quello che ddeve affrigge oggni cristiano
è cch'er Zagro Colleggio nun è ssano
e ccià ttredisci Titoli vacanti.

Siamo effettivamente un po' sconsolati, dobbiamo però cercare di rendere comunque propizio il nostro viaggio, fare magari qualche pratica scaramantica e riacquistare serenità e fiducia. Raggiungiamo perciò il bivio tra l'Appia e l'Ardeatina ed entriamo nella chiesetta del Dommine-covàti (747). Qui ci possiamo sicuramente rinfrancare rivivendo il passaggio di consegne tra gli antichi riti pagani della partenza e del ritorno, che proprio da queste parti, per tanti secoli dell'antichità, i viaggiatori avevano dedicato al dio Redicolo, e la famosa leggenda cristiana fiorita su un ex voto molto particolare. Nella navata centrale si trova infatti il sigillo impresso sul marmo nientemeno che dalle scarpe di Nostro Signore! Sì. Proprio dalle "carcose" di Cristo, che si piazzò sulla "regina viarum", davanti al primo suo Vicario che scappava da Roma, prendendo così anche definitivamente il posto di quell'antica e tanto riverita divinità:

A Ddommine-covàti sc'è un ber zasso
piú bianco d'una lapida de latte,
cor un paro d'impronte de sciavatte,
che pareno dipinte cor compasso.

Llí un giorno, Ggesucristo annanno a spasso,
trovò ssan Pietro, che, ppe nun commatte
cor re Nnerone e st'antre teste matte,
lassava a Rroma er su' Papato grasso.

"Dove vai, Pietro ?" disse Gessucristo.
"Dove me pare", er Papa j'arispose
come avería risposto l'Anticristo.

Io mó nun m'aricordo l'antre cose;
ma sso ccher zasso ch'io co st'occhi ho vvisto
Cristo lo siggillò cco le carcose.

A questo punto è opportuno raggiungere i luoghi indiscutibilmente autentici della cristianità, Le catacomme I (831), dove ci infiliamo nell'intricato labirinto di gallerie vivendone tutta la sacralità, ma anche indulgendo ad una sana ironia sull'abuso terreno che, per secoli e secoli, si è fatto di ossa e reliquie:

Indov'antro c'a Rroma se pò vvede
le catacomme de San Zebbastiano,
dove una vorta er popolo cristiano
fece a nnisconnarello pe la fede?

In quer zagro arberinto, chi cce crede,
trova d'erliquie un cimiterio sano:
e cqui abbusca uno stinco, e llí una mano,
llà un osso-sagro, e una ganassa, e un piede.

Dov'è er lume perpetuo che sse smorza
ar zentí ll'aria, llí ssariccapezza
corpi-santi da venne e empí la bborza.

Si un schertro nun è tutto, s'arippezza;
e quanno è ffatto martire pe fforza
indovinela-grillo e sse bbattezza.

Ma, ovviamente, in tutto questo sacrosanto lavoro niente doveva essere sprecato ed ecco quindi la ricetta della "pasta dei martiri", prodotta con i più minuscoli detriti di ossa trovati dentro Le catacomme II (832):

Mica sò bboni l'ossi sani soli
pe ffà ll'erliquie e frabbicà li santi,
ma inzino li tritumi somijjanti
a ffarro e ttarlature de piroli.

Li nostri fratiscelli e ppretazzoli
fanno un riduno de st'ossetti sfranti,
e li pisteno inzieme tutti cuanti
all'uso d'una sarza de piggnoli.

Sfravolati che ssiino in farinaccio,
se canta un Zarmo, e mmentre che sse canta
se passa la farina pe ssetaccio.

Con oggni dosa poi de scinqu'o ssei
libbre, e mmezza fujjetta d'acqua-santa
ecco fatta la pasta d'Aggnus-dei.

A proposito della creazione di martiri e di santi, non si può non ricordare la simpaticissima Santa Filomena (1222), alla quale furono attribuite le ossa ritrovate, nel 1802, in una tomba del cimitero di Priscilla:

È ariscappata fòra un'antra santa
bbattezzata pe ssanta Filomena:
che de miracoloni è ttanta piena,
che in men crèdo ve ne squajja ottanta.

Quello poi ch'è una bbuggera ch'incanta
è cche li fa ppe bburla, ch'è una scèna !
A cchi anniscome er pranzo, a cchi la scéna...
e ttant'antri accusí, nnòvi de pianta.

Mó la senti viení, mmó ttorna vvia:
mó tte se mette a rride accap'al letto:
mó tte fa cquarcun'antra mattería.

Dicheno ch'è una santa, e ll'hanno detto
puro li preti; ma ppe pparte mia
io la direbbe un spirito follletto.

È proprio un peccato che questo bizzarro personaggio sia stato depennato, qualche anno fa, dall'elenco ufficiale dei santi e martiri cristiani.

Dopo esser rimasti immersi anche per troppo tempo nelle catacombe, torniamo finalmente all'aria aperta per raggiungere quello che può essere considerato il simbolo stesso dell'Appia Antica: il sepolcro di Cecilia Metella. Qui, osservando nel fregio che incorona il monumento il ritmico altemarsi di festoni e bucrani - quei teschi bovini da cui è scaturito il nome della località - si può fare la stessa considerazione di quel popolano che così apostrofa Er cornuto (134), invitandolo a levarsi il cappello :

...sor pioviccicca mia, qui nun ce piove:
potressivo cavavve la frittella:
tanto avete la testa in Dio sa ddove.

Ma lo sapemo che ttienete quella
drento a la torre de Capo-de-Bbove
coll'antra de Sciscilia Minestrella.

Si deduce che il famoso mausoleo cilindrico può anche essere trasfigurato in un enorme calderone, capace di accogliere le protuberanze frontali del soggetto in questione, insieme a tutte quelle dei tantissimi suoi consimili.

Proseguendo il nostro viaggio giungiamo alla Villa dei Quintili, la cui grandiosità ha suscitato nella fantasia popolare l'immagine di una vera e propria città, come se addirittura fosse esistita una Roma ancora più antica di quella dentro le mura. Da questa immagine deriva il toponimo di tutta la zona, esteso e poi ad ogni altra località della campagna romana ricca di reperti archeologici, come avviene ad esempio per Un deposito (211), che altro non è che la Tomba di Nerone e che è situato...

dove nassce la cassia, a mmanimanca,
nò a Ppontemollo, tre mmía piú lontano,
...lí a Rromavecchia.

E, a proposito di grandiosità, l'estensione dell'Agro Romano può essere ispiratrice anche di Un carcolo prossimativo (1391) riferito alla pantagruelica voracità che alligna sempre nei centri del potere. Per attualizzare questo calcolo è opportuno tener presente il sistema di misure esistente prima dell'entrata in vigore di quello metrico decimale. Consideriamo dunque che: una "libbra" corrispondeva a circa un terzo di chilo, quindi una "decina" (di libbre) a più di tre chili; un "rubbio" da grano pesava 64 decine di libbre, che però non tutte diventavano farina per la spianatoia; mentre la "foglietta" era il classico mezzo litro (quasi) e ce ne stavano più di 2000 in una botte "da sedici" (barili), che perciò conteneva circa 1000 litri:

Una vaccina dell'Agro Romano,
senza la pelle, l'interiori, l'ossa,
er zangue e 'r grasso, pò ppesà, Gghitano,
un quaranta descine a ddílla grossa.

Valutanno mò er grano a la riscossa
da la mola e ffrullone, io dico er grano
d'oggni rubbio, un pell'antro, se ne possa
fà un cinquanta descine pe lo spiano.

Incirc' ar vino poi, tu adesso mette
c'una bbotte da sedisci a la fine
dà ddu'mila e cquarantotto fujjette.

Dunque, l'Eminentissimo s'iggnotte
drent'a ddiescianni trentasei vaccine,
quinisci rubbia, e cquarantotto bbotte.

A conti fatti, quindi, il consumo decennale di questo cardinale (e solo per quanto riguarda gli alimenti principali) è valutabile in circa 5.000 chili di carne, 3.000 chili di farina e 50.000 litri di vino.

Vorremmo a questo punto ristorarci, almeno un po', anche noi. Ma ha chiuso i battenti, poco prima del Quarto Miglio, l'osteria cucinante del Tavolato, la più nota fra quelle fuor di porta, descritta da Hans Bart, nella sua "Guida spirituale" delle osterie romane, come il posto ideale per ammirare il paesaggio ampio e solenne della campagna romana. Dopotutto, però, non è più possibile godere di quella superba vista e sembra anche che qui i prezzi fossero abbastanza salati, al punto che un tale dovette raccogliere tutti gli oggetti di valore che aveva dentro casa e ricorrere al Monte di Pietà per poterci mangiare solo un paio di volte. Confidava soprattutto che con l'elezione ormai prossima del nuovo pontefice fossero restituiti, come era tradizione, Li peggni (925) depositati. Ma il poveraccio se la dovette... prendere in quel posto. Infatti nel conclave del 2 febbraio 1831 i "rossi", cioè i porporati cardinali, incoronarono con la tiara papale dalle tre corone il bergamasco Mauro Cappellari, divenuto così il ben noto Gregorio XVI, che si fece subito conoscere abolendo quella generosa usanza:

Oh bbona ! A Rroma s'era sempre usato
che li Papi, ar riscéve li trerreggni
fascéveno aridà ttutti li peggni
che li Romani aveveno impeggnato.

Prima io dunque che ffussi spubbricato
er Papa novo da sti rrossci indeggni,
m'aggnéde a pportà ar Monte li mi' ordeggni,
e cce fesce du' pranzi ar Tavolato.

C'avevo da sapé, ffijji mii bbelli,
ch'er Papa dovessi èsse un Cappellaro
che sformassi sta razza de cappelli?

Cazzo! annajje a vviení lo schiribbizzo
de nun ridà li peggni de ggennaro!
Cuesta sí cche mm' arriva ar cuderizzo!

E' raccomandabile, dunque, allontanarsi un bel po' e attraversare tutto il parco dell'Appia Antica fino al suo naturale proseguimento nel parco dei Castelli romani, col quale costituisce un unico sistema verde di grandissima valenza ambientale. Anche per degustare nella sede più appropriata, con un po' di nostalgia per i vecchi tempi, Li vini d'una vorta (1187):

A ttempi ch'ero regazzotto, allora
ereno l'anni de ruzzà ccor vino:
ché sse faceva er còttimo, ar Grottino,
de bbeve a ssette e a ssei cuadrini l'ora.

E mm'aricorderò ssempr'a Mmarino,
indove tutti l'anni annàmio fora
d'ottobre a vvilleggià cco la Siggnora,
e cce stàmio inzinent'a Ssammartino.

Llí nun c'ereno vini misturati
co ciammelle de sorfo, e cquadrinacci,
e mmunizzione, e ttant'anrtri peccati.

Bevevio un quartarolo, e ddiscevio: essci:
e er vino essciva: e vvoi, bbon prò vve facci,
'na pissciata, e ssinceri com'e ppesci.

Percorriamo quindi il crinale occidentale del lago di Albano e, ammirando l'azzurro cerchio d'acqua incastonato nel cratere vulcanico che ha generato la stratificazione geologica di tutto il nostro territorio, ci viene spontanea la stessa esclamazione che ha fatto Er viaggiatore (237):

...Ah ! cchi nun vede sta parte de monno
nun za nnemmanco pe cche ccosa è nnato.

Cianno fatto un ber lago, contornato
tutto de peperino, e ttonno tonno,
congeggnato in maggnera che in ner fonno
sce s'arivede er monno arivortato...

Possiamo ora metterci in coda per visitare la splendida dimora in cui viene a passare l'estate Er Papa (416), dalla quale è nata anche l'ispirazione di trasferire la residenza romana dal Quirinale al Vaticano...

perché a Ccaster-Gandorfo a mman'a mmano
papa Grigorio indeggnamente ha ddetto
a ttutto-cuanto er popolo romano,

che cquanno torna a Rroma, poveretto,
vò annà abbità a Ssanpietr'invaticano,
perché a Mmonte-Cavallo sce sta stretto.

A questo punto dobbiamo tornare anche noi e, se abbiamo fretta, o solo se vogliamo levarci lo sfizio della velocità, possiamo fare una bella corsa, come quella che fece Gregorio XVI, il 17 ottobre del 1836, quando riuscì a coprire in meno di un'ora Er ritorno da Castergandorfo (1827), lungo l'Appia Nuova. Con una sola breve fermata nella nota osteria attestata, proprio a metà strada, su una torre medievale e funzionante anche, egregiamente, come stazione di posta per il cambio dei cavalli :

Circa a vventitré e un quarto er Padre Santo
s'affermò a bbeve a Ttor-de-mezza-via;
poi rimontò in carrozza e ffesce intanto:
"Sú, ggiuvenotti, aló, ttiramo via."

Me crederai si tt'aricconto in quanto
arrivò a Rroma? Ebbè, a la vemmaria
già stava a ccasa e sse tieneva accanto
er zolito bbucal de marvasia.

Era tanto quer curre scatenato
c'a Pporta San Giuvami lo pijjorno
per un Zommo Pontescife scappato.

E mmó averessi da vedello adesso
come ride ar zentí cquanti in quer giomo
pisciorno sangue pe ttenejje appresso.

Non possiamo però rientrare in città senza aver dedicato una specifica escursione alla valle della Caffarella, che rappresenta indubbiamente una delle zone paesisticamente più originali del parco dell'Appia Antica. Così come molto originali appaiono due personaggi blasonati delle principali famiglie che ne hanno goduto la proprietà.

Il nome del primo veniva fuori, molto spesso, nei coloriti battibecchi che animavano le partite a carte dedicate al tressette o a La bbazzica (927). Ecco le parole rivolte da un giocatore al suo avversario:

Vado per uno. Vòi ? Asso, cavallo.
Vòi ? Dua, quattro... Ma proprio t'arranchelli
pe rripijjà ddu' carte su lo spallo!

Credi de vince pe la mano, eh mulo?
Quella l'aveva puro Cafarelli,
e nun fu bbono de pulisse er culo.

Ed ecco la nota in proposito dello stesso Belli: "Espressione comune nel giuoco, dappoiché è tradizione che uno de' duchi Caffarelli avesse un braccio più corto dell'altro, di maniera che quella mano non gli arrivava a tutti i suoi uffici".

Quanto al secondo personaggio, si tratta di uno dei principi Torlonia, il quale, tra le altre innovazioni che volle sperimentare per i lavori agricoli nella sua tenuta, provò anche l'uso dei cammelli e acquistò, appunto, Nove bbestie nòve (1978):

Curre vosce ch'er Prencipe Turlòni
abbi fatto viení nnove camei,
che ddisce che ssò ccerti animaloni
de l'antichi paesi de l'Abbrei.

Disce ch'er Papa j'abbi detto: E llei
che sse ne fa di quelli accidentoni?
Disce: "Tre l'arivenno, e ll'antri sei
li manno a straportà ccarcia e mmattoni."

Disce: "Ma ccome ! nnun ci sò ccavalli,
muli, somari, sor Prencipe mio,
d'addopralli in ste cose, d'addopralli?"

"Oh, Ppadre Santo, sce ne sò di scèrto,"
disce che ll'antro arrepricò, "ma Iddio
vò li camèi pe bbazzicà ir deserto."

Con quest'ultima considerazione, dal sapore biblico, si ripropone l'immagine della campagna romana con cui abbiamo iniziato il nostro viaggio, mentre, per quanto riguarda il materiale trasportato, abbiamo purtroppo la riprova di quale fine sciagurata abbiano fatto tanti reperti archeologici di questa preziosa valle, chiamata un tempo "vallis marmorea" proprio per l'abbondanza di statue e monumenti.

Ma per la visita guidata alla Caffarella è doveroso ricorrere ad un vero specialista e rintracciare in particolare Er ciscerone a spasso (447). Sicuro! Proprio quell'operatore turistico che è rimasto senza lavoro e alla fame, ed ancora aspetta di tirarsi sù, dall'ultima volta che ha prestato servizio in questa zona, quando ha portato al ninfeo della Ninfa Egeria un tal signore col quale così continua a lamentarsi:

Se commatte. monzú, co la miseria.
Cosa sce s'ha dda fà ? ttrist'a cchi ttocca.
Da sí cche vve portà' a la Ninf'Argeria
nun ciò ppane da metteme a la bbocca.

Abbito drent'a un bùscio de bbicocca
da fa rride sibbè cch'è ccosa seria.
Llí cce piove, sce grandina e cce fiocca,
come disce sustrissimo in Zibberia.

La cuccia mia nu la vorebbe un frate,
ché ddormo, monzú mmio, s'un matarazzo
tarquàle a 'na saccoccia de patate.

Sò annato scento vorte su a Ppalazzo
a cchiede ajjuto ar Papa: e indovinate
cosa m'ha ddato er Zanto-padre: un cazzo.

Quest'ultima constatazione sembra quasi rappresentare le centinaia di iniziative e richieste per la realizzazione del parco dell'Appia Antica, giacente sul piano regolatore da più di trentanni, con un esproprio avviato nel 1971 e poi rientrato, una legge regionale del 1988 farraginosa ed improduttiva e un più recente piano di utilizzazione, per la sola Caffarella, non ancora operativo.

E pensare che proprio accanto ad uno dei due più autorevoli palazzi del potere di oggi, quello del Senato, c'è Piazza Navona (844), con al centro quell'emblematico obelisco egiziano che focalizza tutto lo spazio circostante e che ha una non indifferente attinenza, come vedremo, col nostro tema:

Se pò ffregà Ppiazza-Navona mia
e dde San Pietro e dde Piazza-de-Spaggna.
Cuesta nun è una piazza, è una campaggna
un treàto, una fiera, un'allegria.

Va' da la Pulinara a la Corzía,
curri da la Corzía a la Cuccaggna:
pe ttutto trovi robba che sse maggna,
pe ttutto ggente che la porta via.

Cqua cce sò ttre ffuntane inarberate:
cqua una gujja che ppare una sentenza:
cqua se fa er lago cuanno torna istate.

Cqua ss'arza er cavalletto che ddispenza
sur culo a cchi le vò ttrenta nerbate,
e ccinque poi pe la bbonifiscenza.

La guglia in questione è proprio l'obelisco egizio che si trovava (guarda caso!) sulla spina del Circo di Massenzio. Proviene quindi dalla più prestigiosa area monumentale dell'Appia Antica ed è stato innalzato da Gian Lorenzo Bernini su quella fantastica fontana dei Fiumi che rappresenta, nel centro di Roma, le quattro parti del mondo.

La sentenza di valore universale che esprime sembra proprio un monito preciso, che vogliamo interpretare, anche in coerenza con quanto scritto in premessa, nel seguente modo:

"C'è stato un preciso atto del Parlamento che si chiama Legge per Roma Capitale, e l'obiettivo prioritario in esso sancito della realizzazione del Parco dell'Appia Antica deve essere assolutamente rispettato".


testo a cura di Paolo Grassi


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