Scheda: il rapporto tra i Romani e i defunti


Gli antichi Romani non avevano i nostri cimiteri, che sono posteriori al periodo napoleonico, ma seppellivano i loro morti dove volevano, bastava possedere un po' di terreno, con l'unico vincolo dato dal divieto di seppellire all'interno del pomerio (Legge delle XII tavole, V sec. a.C.: "Hominem mortuum in urbe ne sepelito neve urito", cioè "in città i morti non devono essere né sepolti né cremati"), che in genere coincide con l'abitato, per ragioni di igiene e sicurezza.

Le uniche eccezioni erano per grandi condottieri, eroi o imperatori, i quali, divinizzati post mortem, potevano disporre la tomba entro il recinto murario; se poi troviamo dei sepolcri all'interno delle Mura Aureliane, è perché furono collocate in quell'ampio spazio di tempo in cui a Roma le uniche mura erano quelle repubblicane.

I Romani, sia che appartenessero a famiglie romane o che provenissero dalle province, avevano una religiosità nella quale la vita oltremondana aveva senso se era agganciata al ricordo dei vivi, e, come per i Greci, la sepoltura era un elemento importantissimo.

Per questo facevano in modo di essere ricordati costruendo sepolcri monumentali, e in relazione alla loro estrazione sociale, culturale o economica, vollero imprimere alle tombe segni distintivi differenziandole nel loro aspetto per tipologia, per dimensioni o per originali sistemi costruttivi, e ornandole di mosaici, pitture, statue, ritratti dei defunti scolpiti o dipinti, fregi e rilievi in marmo, disegni di paramenti murari ottenuti con la originale disposizione dei mattoni. Le tombe si allineavano soprattutto lungo i bordi delle principali vie extraurbane , per poter meglio essere a contatto diretto con i vivi; se quindi partiamo da fuori le Mura Repubblicane incontriamo una successione di tombe, anche di personaggi molto importanti quali gli Scipioni, Geta, Massenzio, in un colloquio ribadito dal fregio con il ritratto dei defunti che ti guardano in faccia, e dalle iscrizioni che apostrofavano chi passava perché si fermasse a pensare un momento al defunto, del quale ricordavano il nome e la vita, raccontavano cosa aveva fatto, e ringraziavano il viandante, raccomandandogli di non sporcare la tomba fermandosi a fare i bisogni proprio lė dietro.


La tomba di Ilario Fusco

Le tombe più grandi avevano lo schiavo che le curava di padre in figlio ed avevano magari la fontanella ed un sedile che invitava il viaggiatore a fermarsi.

Chi possedeva una villa in campagna poteva seppellire i propri defunti nell'orto di casa, facendo sė che i parenti potessero continuare ogni sera, prima di andare a letto, a dare la buona notte al nonno, allo zio, al bisnonno, a tutti quelli che li avevano preceduti e di padre in figlio andavano ad occupare poi la tomba di famiglia.

Nei riti funebri i parenti banchettavano ricordando il defunto e pensando che questi partecipasse in spirito e che fosse contento della festicciola familiare. Questa usanza continuò per un po' anche nel cristianesimo; infatti nelle catacombe non rovinate dalla troppa frequentazione (ad esempio nelle catacombe di Priscilla) è facile trovare, nel corridoio, un tubicino di terracotta o di vetro (cannula) che mette in comunicazione l'interno del loculo con l'esterno; così, per esempio, il figlio che andava a trovare la tomba del padre versava una goccia di profumo all'interno del tubicino, oppure, quando si brindava in onore del defunto, si versava un po' di vino pensando che egli ne gustasse e brindasse con i parenti. E' una credenza che sopravvive ancora oggi quando noi portiamo i fiori ai nostri morti.


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copyright COMITATO PER IL PARCO DELLA CAFFARELLA, 3 maggio 1999