Il Triopio di Erode Attico


  1. Erode Attico ed il suo tesoro
  2. La villa di Erode
    1. Il Pago Triopio e le iscrizioni triopee
  3. La cisterna di fronte al circo di Massenzio
  4. La grande cisterna
    1. Scheda
  5. Il circo di Massenzio
  6. Il colombario ipogeo
    1. Scheda
  7. Sant'Urbano
    1. Scheda
    2. Le decorazioni della volta
    3. Il ciclo di affreschi
  8. Il ninfeo di Egeria
    1. I boschi sacri e i culti locali

Erode Attico ed il suo tesoro

Tiberio Claudio Erode Attico era un personaggio ricchissimo ed assai famoso, nato tra il 100 ed il 101 d.C.; fu retore, filosofo, precettore degli imperatori Lucio Vero e Marco Aurelio, e governatore di una parte dell'Asia e della Grecia.

Aveva ereditato le sue ricchezze dal padre che pure si chiamava Erode Attico, un ateniese che discendeva da una delle più antiche e nobili famiglie dell'Epiro, gli Eacidi, e che vantava fra i suoi antenati addirittura il famoso Achille.

Si narra che Erode Attico padre, nonostante le illustri origini, fosse ridotto nella miseria più nera; un giorno, mentre nella sua casa di Atene sbatteva la testa nel muro per la disperazione, scoprì una cavità nella quale era nascosto un enorme tesoro.

Gli studiosi dell' '800, conquistati dalla suggestività dell'episodio, si scervellarono nella ricerca dell'origine di un tale tesoro, e giunsero ad attribuirlo nientemeno che al re persiano Serse, che l'avrebbe abbandonato in Grecia in seguito alla sconfitta di Salamina; studi critici più recenti hanno però spiegato questa incalcolabile ricchezza in modo meno fantasioso, ipotizzando una più concreta speculazione finanziaria: i beni di famiglia, tesaurizzati e nascosti dal nonno per non pagare i debiti, sarebbero in seguito ritornati in circolazione col pretesto del tesoro.

Fatto sta che Erode Attico padre (questo è vero), divenuto improvvisamente il più ricco uomo dell'epoca, scrisse preoccupato all'imperatore Nerva per avere istruzioni; l'imperatore, brevemente, rispose "usane". Nuovamente interpellato dal perplesso Erode, Nerva rispose addirittura "e tu abusane"; ma chi usò l'immensa ricchezza fu invece Erode Attico figlio, che diventò famoso costruendo grandiose opere pubbliche, soprattutto in Asia minore e ad Atene, dove ancora oggi si ammirarano lo stadio delle Olimpiadi e l'Odeon sotto l'Acropoli; inoltre si debbono a lui lavori a Canosa di Puglia e naturalmente a Roma.

Erode era tanto consapevole della propria notorietà che sulla sua tomba fece scrivere: "Giacciono in questo sepolcro i pochi resti di Erode figlio di Attico, nativo di Maratona, mentre la sua fama è sparsa in tutto il mondo".

La moglie di Erode Attico era Annia Regilla, discendente dall'antica famiglia dei Regoli, che annoverava fra gli antenati quell'Attilio Regolo morto durante la I guerra punica. Annia Regilla portò in dote al marito questo fondo, che si estendeva lungo il III miglio della via Appia.

Quando la moglie morì, nel 160-161 d.C., Erode fu accusato dal cognato di averla assassinata, e subì per questo un processo, da cui uscì assolto.

Tuttavia l'opinione pubblica mormorava che egli, con le sue ricchezze, avesse corrotto i giudici; per smentire queste voci Erode si dette a manifestazioni pazze di lutto: fece dipingere di nero tutta la casa, regalò i gioielli della moglie ai templi degli dei, ed in suo onore ristrutturò tutto il fondo, a cui diede il nome di Triopio in ricordo del famoso santuario che Demetra, dea delle messi, aveva nella città di Cnido in Asia minore (l'odierna Turchia). Egli volle in questo modo porre la sua proprietà al di sopra dei comuni interessi umani.

Nello stesso tempo la parola Triopio richiamava il nome di Triopas, re di Tessaglia, che secondo la leggenda aveva osato tagliare la legna del bosco sacro a Demetra, e per questo era stato da lei punito con una fame insaziabile che lo aveva portato alla morte. Forse, nelle intenzioni di Erode, tale ricordo doveva tenere lontani dal fondo i malintenzionati che si fossero avvicinati per rubare o per recare danno alla sua proprietà.

Negli ultimi anni della sua vita Erode fece ritorno a Maratona, dove si spense, a 76 anni, tra il 176 e il 179 d.C..

La villa di Erode

La visita del Triopio comincia dalla base della collina verso via dell'Almone; lì un fico nasconde un angolo di stanza coperto con una volta a botte, costruito in calcestruzzo e scaglie di selce; il paramento, che ricorda un po' l'opus incertum, e la volta sono restauri medievali.

Questa struttura sosteneva un ampio terrazzamento, su cui probabilmente sorgeva il grande palazzo di Erode Attico.

Approfondisci:
la villa suburbana

Resti vari

In cima alla collina si vedono invece solo due costruzioni rettangolari, costruite l'una da muri di grosse scaglie di selce e l'altra da muri di scaglie di tufo, entrambi con poca malta, che possono essere tanto medievali quanto moderne, ma certo non antiche. Comunque sia, i manufatti versano in orribili condizioni: invasi dai rovi e abbandonati alle intemperie, stanno sgretolandosi.

Tutt'intorno l'erba nasconde un'incredibile quantità di materiale archeologico: blocchetti di tufo per opera reticolata, mattoni triangolari, tegole, basoli isolati, selci, blocchi di travertino, lastrine di opus sectile marmoreum, tessere di mosaico, frammenti di intonaco colorato di rosso, azzurro o bianco ecc. ecc., tutto a testimoniare l'importanza dell'edificio scomparso.

Il Pago Triopio e le iscrizioni triopee

Il "Pago Triopio" si estendeva approssimativamente nella zona compresa tra la chiesa del Quo Vadis e via dell'Almone.

Cinque epigrafi qui trovate, dette appunto "iscrizioni triopee", ci forniscono notizie interessanti sull'origine e sull'organizzazione del comprensorio.

Le prime due iscrizioni, su grandi colonne di marmo cipollino (ora al Museo Nazionale di Napoli), riportano: "Non è permesso ad alcuno di portarle via dal Triopio, che è situato al terzo [miglio] della via Appia, nel possedimento di Erode. Chi le rimuoverà non ne riceverà certo vantaggio. Ne è testimone la dea infernale (Hecate) e le colonne che sono dono a Cerere e a Proserpina e agli dei Mani e [a Regilla]."

Altre due iscrizioni (oggi al Louvre), scolpite su cippi di marmo pentelico, contengono un lungo panegirico in versi, composto da Marcello Sideta (un poeta amico di Erode); una copia delle due colonne si trova a villa Borghese.

Nella quinta iscrizione, su una colonna di marmo collocata originariamente all'ingresso del Triopio e ora ai Musei Capitolini, è scritto, in latino e in greco: "Annia Regilla, moglie di Erode Attico, luce della casa, alla quale appartennero questi beni".

Le iscrizioni ci descrivono campi di grano, olivi, vigne, prati, addirittura la stazione di polizia, il campo sacro a Nemesi e Minerva, il parco, il villaggio colonico (che era dalle parti di Cecilia Metella) e, nel luogo in cui successivamente fu costruito il Palazzo di Massenzio, la villa residenziale. Soprattutto è citato un tempio dedicato a Cerere (la dea romana corrispondente alla Demetra dei Greci) e a Faustina (moglie dell'imperatore Antonino Pio, da poco morta e quindi divinizzata), al cui interno Erode collocò la statua della moglie; il tempio, tuttora esistente, va identificato nella chiesa di Sant'Urbano.

Cinque cariatidi (4 intere e una con la sola testa), ritrovate da queste parti al tempo di papa Sisto V, formavano un portichetto alla villa di Erode Attico. Oggi le cariatidi sono una ai Musei Vaticani (nel Braccio Nuovo), una al British Museum e le altre a villa Albani.

La cisterna di fronte al circo di Massenzio

Al di là di via Appia Pignatelli si ha una bellissima veduta del circo di Massenzio, ma prima di arrivare alla strada troviamo ancora in piedi la parete di una cisterna, costruita in calcestruzzo e scaglie di tufo; il lato esterno è senza paramento, mentre il lato interno è rivestito in laterizio giallo su cui aderisce, al posto del solito intonaco, un grosso strato di coccio pisto.


parete della cisterna su via Appia Pignatelli

La grande cisterna


La grande cisterna di fronte a Sant'Urbano

Da qui, facendo attenzione a non cadere nei pozzi e a non calpestare condutture in terracotta e fondamenta di altri edifici, si raggiunge facilmente una grossa cisterna per l'irrigazione del fondovalle, che dal punto di vista architettonico presenta molte curiosità: in primo luogo la cisterna è rettangolare all'esterno (le dimensioni sono 21,4x8,6 m) mentre all'interno ha le pareti corte a forma di semicerchio; poi la volta, gettata su cèntina di tavole (un'armatura in legno che sosteneva la volta durante la costruzione), è, caso unico in Caffarella, a due spioventi che formano un angolo quasi retto; sopra la volta il tetto era piano, ma vi fu costruito in un secondo tempo un muro perimetrale che infatti aderisce male; questa sopraelevazione deve essere stata costruita quasi contemporaneamente, visto che la tecnica costruttiva è la stessa del resto dell'edificio.

Il pavimento della cisterna è in coccio pisto, un insieme di malta e frammenti di mattoni che forma uno strato impermeabile.

Un'ultima curiosità è la muratura in opus signinum con scaglie di selce senza paramento, particolare che indica che in origine la cisterna non si alzava sulla collina, ma era incassata nel suolo. Tutto questo permette di datare l'edificio ai primi anni dell'Impero (44 a.C.-40 d.C.).

E' molto probabile che lo sbancamento del terreno circostante sia avvenuto al tempo dell'imperatore Massenzio (305 d.C. - 312 d.C.) per realizzare la grande piattaforma su cui poggiano il circo e il Palazzo; i blocchi di tufo che si vedono ai piedi della cisterna devono essere stati collocati dopo lo sbancamento, per rinforzare la base dell'edificio.

Scheda

PERIODO STORICO: I sec. d. C.

DESCRIZIONE: Edificio rettangolare (m. 21,4 x 8,6) con le pareti corte interne semicircolari; in origine era incassato nel terreno, e per questo fu costruito in scaglie di selce senza paramento con uno spessore di 60 cm; il pavimento è in coccio pisto, la volta è a due spioventi ad angolo quasi retto, gettati su centina di tavole; la parte superiore presenta un muro perimetrale indipendente dal piano inferiore, ma approssimativamente contemporaneo.

Il muro perimetrale superiore aderisce male al tetto del piano inferiore; l'interno dell'edificio è pieno di rifiuti.

Il circo di Massenzio

Dalla cisterna romana di fronte Sant'Urbano la vista spazia sul circo di Massenzio; questi, divenuto imperatore per acclamazione nel momento in cui doveva entrare in funzione il meccanismo della successione tetrarchica inventato da Diocleziano (e con lui fallito), riportò la capitale da Milano a Roma, dove si adoperò in grandi opere pubbliche, tra cui il circo che si vede oltre via Appia Pignatelli.

Approfondisci:
visita guidata al III miglio della via Appia Antica

Il colombario ipogeo

La piccola valle che dalla cisterna scende verso l'Almone è particolarmente importante; sappiamo infatti che sottoterra si trova un piccolo colombario in opera listata, le cui pareti sono occupate da nicchie per le olle cinerarie e loculi per piccoli sarcofagi, tutti decorati con motivi floreali. Questo colombario, ora ricoperto, è stato scavato abusivamente nel dicembre 1990, ma è assai poco probabile che gli improvvisati tombaroli abbiano trovato alcunché di prezioso; bisogna infatti ricordare che tutto il comprensorio, così vicino alle catacombe dell'Appia Antica, è stato setacciato per secoli dai contadini della zona, che andavano a rivendere ai pellegrini gli oggetti più disparati, spacciando il più delle volte le ossa pagane come reliquie di chissà quale santo.

Approfondisci:
il rapporto dei Romani con la morte

Approfondisci:
l'architettura funeraria romana

Scheda

PERIODO STORICO: III secolo d. C. (?)

DESCRIZIONE: Piccolo colombario ipogeo in opera listata di dimensioni 2,08x2,95 m; sono visibili tre pareti, di altezza 1,30 m; le pareti laterali presentano al centro un loculo per sarcofago, e su entrambi i lati due nicchie sovrapposte per le urne cinerarie; nella parete di fondo il posto centrale è occupato da un nicchione; le nicchie e i loculi sono coperti da uno strato di intonaco di 1 cm di spessore, su cui sono dipinti dei fiori.

Questo colombario è stato oggetto di uno scavo abusivo, per cui sia i sarcofagi sia le nicchie sono stati scassati per cercare oggetti da rivendere; la tomba è stata riseppellita per proteggerla.

Di fronte a noi tre lecci secolari, circondati da lecci più giovani, svettano sulla collina; sono gli ultimi tre sopravvissuti del famoso Bosco Sacro, che all'inizio del secolo occupava tutta la balza; di questo avremo modo di parlare a proposito del ninfeo di Egeria.


resti trovati tra il Bosco Sacro e Sant'Urbano

Sant'Urbano

Si tratta in realtà di un tempio romano, costruito intorno al 160 d.C., perfettamente conservato fin nelle tegole del tetto.

L'eccezionale stato di conservazione si deve alla trasformazione dell'edificio pagano in luogo di culto cristiano; ciò ha assicurato nel corso dei secoli alcuni sporadici interventi di manutenzione (il restauro più importante fu effettuato nel 1634 dal cardinale Francesco Barberini). Tuttavia la sfavorevole posizione, fuori dalle Mura Aureliane, ha fatto sì che la chiesa fosse più volte profanata. Nel 1962 un casale adiacente è stato trasformato in villa, e da allora anno dopo anno il monumento è diventato sempre meno accessibile, fino all'acquisizione da parte del Comune di Roma nel 2001.

Gli studi più recenti riconoscono in questo edificio il tempio di Cerere e Faustina, che sorgeva all'interno del Triopio di Erode Attico; in origine esso era sollevato su un podio con sette gradini, al centro di un grande terrazzamento rettangolare (che oggi si individua a fatica) che costituiva, sopra la collinetta boscosa, una platea cinta di portici: il paesaggio non era dunque agreste come oggi, ma ricco di costruzioni.

In laterizio è non solo il corpo dell'edificio (cioè il muro perimetrale, il timpano e la costruzione interna), ma anche la decorazione della parte alta della facciata (mensole, cornici, dentelli e ovoli), secondo l'uso tipico della metà del II sec. d.C., quando questo materiale economico era utilizzato con una raffinatezza quasi virtuosistica.

Il tempio ha quattro colonne sul davanti (tempio "prostilo tetrastilo"); le colonne, i capitelli corinzi e l'architrave sono in marmo pentelico, un marmo bianco che proveniva dalla Grecia, e le cui miniere appartenevano allo stesso Erode Attico. Il muro fra le colonne è dovuto al restauro del 1634 quando nella facciata si era aperta una crepa, visibile ancor oggi, che minacciava di far crollare il tempio; dobbiamo quindi ricostruire con l'immaginazione lo spazio libero fra le colonne, e il sottoportico aperto.

Facciata di Sant'Urbano
Facciata di Sant'Urbano

Superati pochi gradini si entra in un piccolo atrio, utilizzato fino a pochi anni fa come abitazione del guardiano; qui vi era collocata su un piedistallo una statua femminile (forse la dea Cerere), che però è stata rubata all'inizio degli anni '80.

Attraversato il sottoportico (in alto si riconosce lo stemma dei Barberini con le tre api) si entra in una grande stanza (la cella del tempio) che, contrariamente alle camere dei sepolcri a tempietto, è molto luminosa.

stemma della famiglia Barberini
Stemma della famiglia Barberini (autore: Giulio Pellegrini)

La cella è il locale più interno del tempio romano; al posto dell'altare cristiano dovevano esserci quindi le immagini delle due dee alle quali il tempio era dedicato, e forse anche una statua di Annia Regilla.

Questo luogo sacro era riservato al sacerdote, che si faceva interprete fra la divinità ed i fedeli; questi ultimi rimanevano fuori, davanti alla gradinata del tempio, dove c'era l'altare su cui venivano offerti i doni, animali o frutti della terra.

Oggi la gradinata e i resti dell'altare non sono più visibili perché interrati.

La struttura architettonica interna appare ben conservata: le pareti sono divise in tre fasce orizzontali, di cui quella mediana presenta una serie di riquadri separati da pilastrini con capitelli corinzi in peperino; la fascia inferiore è liscia.

interno
Interno di Sant'Urbano

All'interno è ancora conservato un piccolo altare rotondo di marmo, rinvenuto nel giardino adiacente nel 1616, nel quale si legge un'iscrizione in greco dedicata a Dioniso (il dio Bacco); ciò fece supporre che il tempio fosse a lui dedicato.

L'edificio, trasformato in luogo di culto cristiano forse già nel VI sec. d.C., fu dedicato al vescovo Sant'Urbano, il cui corpo era sepolto al quarto miglio della via Appia Antica, dove ancora oggi c'è un grosso rudere.

Gli affreschi che ornano gli antichi riquadri risalgono all' XI secolo, ma furono rimaneggiati nel '600; sul pavimento vi è la lapide sepolcrale di Sebastiano Biliardi, con lo stemma e la data della morte (1657).

lapide di Sebastiano Biliardi
Lapide sepolcrale di Sebastiano Biliardi (autore: Giulio Pellegrini)

Attraverso una piccola scala si scende nella cripta; le sue dimensioni ridotte e la posizione sotto l'altare provano che essa fu costruita per essere una "Confessione", cioè il luogo sotto l'altare in cui si conservano le reliquie del santo (un buco indica il posto in cui esse erano custodite). Le pareti, che mostrano ancora i segni delle picconate, sono abbellite con pitture che imitano delle lastre di marmo.

Scheda

Tempio di Cerere e Faustina
(chiesa di S. Urbano)

PERIODO STORICO: II secolo d. C.

DESCRIZIONE:

marmo pentelico; le decorazioni architettoniche della trabeazione sono anch'esse in cotto; la cornice sopra l'architrave è così composta: dentello-astragalo-ovolo-astragalo-dentello-listello; la cronice del timpano è così composta: dentello-astragalo-ovolo-dentello-astragalo-dentello-mensole-ovolo-dentello-astragalo-ovolo-astragalo-dentello-ovolo-listello; l'interno presenta tre ordini: il primo è liscio; il centrale (che poggia su un poggiolo aggettante fatto di archetti a piatta banda di pedali impostati tra mense trapezoidali di tufo o travertino) è dato da riquadri chiusi da pilastrini con sopra capitelli corinzi in peperino, e presenta pitture del XI sec. d. C.; l'ordine superiore consiste in una fascia poggiante su una cornice di piattebande, ed ha stucchi raffiguranti trofei barbarici; la volta, a sesto pieno, conserva tracce degli stucchi decorativi ottagonali, e parte di una scena di sacrificio; cripta con pitture del IX secolo.

parte alta della facciata di S. Urbano
Parte alta della facciata di Sant'Urbano (autore: Giulio Pellegrini)

Gli affreschi dell'ordine centrale riproducono scene del nuovo testamento e gli atti di S. Urbano, S. Cecilia e S. Lorenzo, mentre nella cripta si conserva una raffigurazione della Vergine con bambino e santi; nel pavimento della chiesa è la lapide sepolcrale di Sebastiano Biliardi, con stemma, del 1657.

Lo stato dell'edificio sembra buono; al contrario gli affreschi dell'ordine centrale stanno progressivamente sbiadendo ed in alcuni punti la pittura sta addirittura sgretolandosi.

Le decorazioni della volta di Sant'Urbano

Il tetto, costruito con la tecnica della volta a botte, era decorato da una serie di stucchi ottagonali e quadrati; questi stucchi, contemporanei a quelli delle tombe dei Valeri e dei Pancrazi, sono disposti in modo così preciso da far pensare ad un ruolo non solo decorativo (con scenette e motivi floreali scolpiti a mano) ma anche architettonico, mirante ad imitare lo schema rigido dei cassettoni in muratura.

Di tutti gli stucchi ottagonali è rimasto miracolosamente proprio quello centrale, che raffigura due persone in rilievo, una delle quali interamente conservata: è una donna nobilmente vestita di un ampio "himation" (una sorta di mantello drappeggiato che partendo da una spalla girava dietro la schiena per ritornare sul davanti) e da un chitone a cintura alta, raffigurata nell'atto di compiere un sacrificio; si tratta forse dell'apoteosi di Annia Regilla, che dopo la morte ascende al cielo diventando una divinità.

stucco centrale
Stucco centrale (autore: Giulio Pellegrini)

Alla base della volta, sopra le pareti, si vede inoltre un fregio in stucco con armi, corazze e scudi, che non si riferisce a nessun episodio particolare, ma indica piuttosto l'attaccamento di Erode (e ancor più di Annia Regilla) alle tradizioni e agli ideali italici; molta parte è però sparita e sarebbe necessario un nuovo restauro.

fregio
Fregio

Il ciclo di affreschi di Sant'Urbano

Gli affreschi sulle pareti sono stati lungamente studiati ed analizzati, soprattutto per verificare l'anno della loro prima "stesura"; infatti la firma (frater Bonizzo) e la data (1011) che compaiono sotto la scena della Crocifissione sono state messe in discussione dagli studiosi d'arte.

crocifissione
Crocifissione (autore: Giulio Pellegrini)

La scena in basso mostra due figure che tengono in mano dei panni; se nei panni volessimo vedere la veste di Gesù allora potremmo pensare che il frater Bonizzo sia stato il pittore dell'affresco; se invece riconosciamo nei panni un tributo al Salvatore, allora Bonizzo potrebbe essere il committente, da identificare in uno dei due personaggi. L'asta spezzata del soldato romano che offre a Gesù la spugna imbevuta di aceto è spiegata con un'incertezza del restauratore del '600 nel riconoscere il disegno antico, ormai rovinato. In ogni caso, gli affreschi appartengono allo schema tipico del periodo medievale. Le 34 scene distribuite lungo le pareti rappresentano episodi tratti dal Vangelo, dal martirio di san Lorenzo e di altri santi non ancora ben identificati.

l'adorazione dei Magi
L'adorazione dei Magi (autore: Giulio Pellegrini)

Nell'adorazione dei Magi riconosciamo nell'asterisco in alto la stella che ha guidato i tre personaggi alla grotta della Natività. Nella scena del martirio di san Lorenzo, l'erba che si vede in basso sono in realtà le fiamme della graticola sulla quale fu torturato il santo sotto Valeriano (258 d.C.); secondo la leggenda che risale al IV secolo, san Lorenzo, alla richiesta del centurione di abiurare la fede, rispose: "sono cotto, ora girami e mangia".

il martirio di san Lorenzo
Il martirio di san Lorenzo (autore: Giulio Pellegrini)

Particolarmente importanti sono le "vite" di santa Cecilia e sant'Urbano: santa Cecilia era una ricca e nobile cittadina romana, la quale, in segno di conversione al cristianesimo, volle donare un suo terreno sulla via Appia Antica alla Chiesa; il terreno fu così utilizzato dal papa S. Callisto per la costruzione delle catacombe.

Il ciclo di affreschi si conclude nella cripta, nella cui nicchia una rozza pittura raffigura la Madonna con Bambino fra S. Giovanni e S. Urbano; la rappresentazione frontale dei personaggi e l'atteggiamento composto e solenne sono tipici dell'iconografia bizantina, ma l'astrattezza e l'inespressività dei volti, assieme alla severità del Bambino, sono tipici del periodo precedente l'anno 1000.


Madonna con Bambino fra S. Giovanni e Sant'Urbano

Il ninfeo di Egeria

Ai piedi della collina, appena finito di restaurare, c'è il cosiddetto ninfeo di Egeria. La ninfa era una delle "Camene", divinità minori legate alle acque e alle sorgenti, così come Almone era il dio del fiume. Le Camene ricambiavano le offerte di acqua e latte concedendo profezie; in genere esse accompagnavano eroi o personaggi importantissimi, così Egeria si legò alle origini stesse di Roma sposando Numa Pompilio, il re sabino successore di Romolo.

La leggenda vuole che essi si incontrassero in questo luogo per chiacchierare e fare l'amore; qui la ninfa ispirava lo sposo nel comporre le leggi e l'ordinamento religioso della Roma primitiva.

In realtà la sorgente di Egeria era al primo miglio fuori le Mura Repubblicane, dove oggi inizia la Passeggiata Archeologica, alle pendici del Celio; lì infatti vi erano il laghetto e il bosco sacro alle Camene, con una grotta ancora esistente in età imperiale. Ma gli studiosi del '600-'700 confondevano le Mura Repubblicane con le Mura Aureliane; così, calcolando un miglio a partire da porta S. Sebastiano, essi giunsero a questo ninfeo, al quale diedero erroneamente il nome di Egeria.


Il ninfeo di Egeria

La struttura architettonica dell'edificio è oggi facilmente riconoscibile grazie ai restauri del 1999. Consiste in una grande stanza rettangolare, con una nicchia nel fondo e tre nicchie più piccole in entrambe le pareti laterali, il tutto costruito in "opus mixtum" di opera reticolata e laterizio. Tale tecnica edilizia data la costruzione intorno alla metà del II sec. d.C..


La nicchia di sinistra del ninfeo di Egeria

L'interno era riccamente rivestito di marmi: le pareti erano di "verde antico", un marmo pregiato proveniente dalla Tessaglia (alcune tracce di questo marmo verde si vedono nell'angolo in fondo a sinistra), mentre il pavimento era di "serpentino", un porfido di intenso colore verde proveniente sempre dalla Grecia (vicino Sparta). Le nicchie (come si intravede nell'ultima nicchia a sinistra) erano di marmo bianco e, infine, tra le nicchie e la volta vi era una fascia decorata con mosaici. L'ambiente centrale è coperto con la tecnica della volta a botte, sulla quale aderiva uno strato di pietra pomice, allo scopo di far attecchire il capelvenere.

Dalla nicchia di fondo, dove vi è una statua coricata (il dio Almone?), sgorga l'acqua della fontana: essa è captata da una sorgente acidula sotto via Appia Pignatelli, diversa dall'Acqua Santa che è più a monte, ed è condotta fin qui tramite un acquedotto sotterraneo.


Il dio Almone?

L'acqua era incanalata in tubature di terracotta lungo le pareti e formava giochi d'acqua nelle nicchie laterali, arricchite da altre statue; inoltre l'umidità, condensando nella volta, creava uno stillicidio che, insieme alla ricca vegetazione che scendeva dall'alto, rendeva l'ambiente molto fresco e suggestivo.


La nicchia di sinistra del Ninfeo di Egeria

Nel complesso, i marmi verdi del pavimento e delle pareti e la volta coperta di capelvenere che gocciolava, dovevano dare l'idea un po' barocca di una grotta artificiale, dove Erode Attico poteva venire nei periodi di calura estiva per passeggiare al fresco, chiacchierare piacevolmente con gli amici o banchettare. Nelle ville romane si trovano spesso luoghi come questo: un esempio per tutti è il Canopo di villa Adriana a Tivoli.


Il condotto sotterraneo
(per gentile concessione di Marco Placidi, c/o Roma sotterranea)

All'esterno della grotta, oltre l'atrio di cui si vedono le nicchie laterali, l'acqua scorre creando una prima vasca rettangolare, che forse anticamente era circondata da un portico oggi scomparso. Sottopassato l'acquedotto ottocentesco che alimentava la mola del Tempio del dio Redicolo, l'acqua formava forse un altro grande bacino, e infine si gettava nell'Almone. Questo laghetto, che le ricerche del 1998-1999 non hanno però ritrovato, si può forse identificare nel "lacus salutaris" che le fonti antiche ricordano a sinistra della via Appia Antica.

Nel '700 e '800 il ninfeo di Egeria fu meta obbligata per i viaggiatori del Grand Tour: Chateaubriand, Verri, Goethe, Andersen, Piranesi, hanno lasciato descrizioni e disegni della grotta. Anche i Romani frequentavano questo luogo: proprio qui si allestiva una tipica osteria fuori porta, come testimoniano alcune stampe d'epoca.

I tre lecci che abbiamo visto prima facevano parte del cosiddetto Bosco Sacro, sia perché (almeno fino agli inizi del secolo) costituivano un vero e proprio bosco, sia perché confusi, sempre per errore, col bosco sacro alle Camene; tuttavia il boschetto, quasi sicuramente già esistente, faceva parte, assieme al ninfeo, del Triopio di Erode Attico, e quindi è assai probabile che, data la sacralità del comprensorio, esso fosse dedicato a qualche divinità romana. Nel novembre 1998 il Comitato per il Parco della Caffarella ha piantato alcuni lecci, nati dalle stesse ghiande del leccio più anziano, per ricostituire il boschetto originale; questo è infatti l'unico bosco sacro di cui la tradizione ci dia ininterrottamente notizia sin dal tempo degli antichi Romani. L'anno successivo il Comune di Roma ha ricostituito l'aspetto del boschetto aggiungendo numerosi lecci di vivaio.

I boschi sacri e i culti locali

L'albero, presso i Romani, era sacro, ed era considerato un delitto troncare un albero dalla vita ancora rigogliosa. Così era frequente, nelle ville suburbane, la presenza di un bosco sacro; in Caffarella, tra l'altro, sappiamo che il dio Redicolo aveva un proprio bosco sacro, e che vicino al Triopio vi era addirittura un santuario dedicato a Silvano, il dio dei boschi.

Accanto ai boschi sacri, altri culti sono poi documentati qua e là: Demetra e Proserpina, Minerva e Nemesi (le quali avevano un loro campo sacro), Iside e Serapide erano venerate all'interno del Triopio. Lungo la via Appia Antica abbiamo il culto di Marte, del dio Redicolo, della Magna Mater, del dio Almone e di Bacco Sabazio; per finire, lo stesso ninfeo di Egeria doveva avere un proprio culto acquatico e silvestre, testimoniato dalla statua nella nicchia di fondo e dai frammenti di statua di un fauno ritrovati nel passato.


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copyright COMITATO PER IL PARCO DELLA CAFFARELLA 29 gennaio 2002