Erode Attico descritto da sei autori: Gellio, Filostrato, Gibbon, Gregorovius, Mommsen, Yourcenar

Può essere interessante mettere a confronto il ritratto di Erode Attico che ci viene fornito da sei autori diversi per epoca e formazione culturale: da Aulo Gellio, contemporaneo di Erode, per una testimonianza diretta delle sue imprese; da Filostrato, per la fine del II - inizio del III sec. d.C., l'antichità classica; dal Gibbon per il Settecento, il secolo dei Lumi; da Gregorovius, con la sua concezione romantica della storia, e dal Mommsen per l'Ottocento; dalla Yourcenar, con la sua cultura e sensibilità poetica, per il Novecento. Tutti avevano attentamente studiato le fonti ma l'attenzione viene di volta in volta puntata su aspetti particolari della vita e del carattere di quel singolare personaggio.

Per noi, agli albori del XXI secolo, Erode Attico è innanzitutto il nome che ricorre sistematicamente nelle visite culturali alla Caffarella e rappresenta la certezza che il suo Triopio si è salvato dalla speculazione edilizia dando anche il primo concreto avvio al Parco dell'Appia Antica. Egli credeva di passare alla storia in primo luogo per la sua produzione filosofica e letteraria, in secondo luogo per le grandiose opere ed i monumenti eretti soprattutto nella Grecia. Non sapeva che avrebbe avuto in sorte di essere ricordato almeno una volta alla settimana ai cittadini romani e ai turisti per l'area sacra e, secondo i suoi intenti, inviolabile che attrezzò in onore e memoria delle sua defunta moglie.


Le imprese di Erode Attico raccontate da un testimone oculare: Aulo Gellio

AVLI GELLI NOCTES ATTICAE: LIBER I, 2

Ab Herode Attico C. V. tempestive deprompta in quendam iactantem et gloriosum adulescentem, specie tantum philosophiae sectatorem, verba Epicteti Stoici, quibus festiviter a vero Stoico seiunxit volgus loquacium nebulonum, qui se Stoicos nuncuparent.

1 Herodes Atticus, vir et Graeca facundia et consulari honore praeditus, accersebat saepe, nos cum apud magistros Athenis essemus, in villas ei urbi proximas me et clarissimum virum Servilianum compluresque alios nostrates, qui Roma in Graeciam ad capiendum ingenii cultum concesserant.
2 Atque ibi tunc, cum essemus apud eum in villa, cui nomen est Cephisia, et aestu anni et sidere autumni flagrantissimo, propulsabamus incommoda caloris lucorum umbra ingentium, longis ambulacris et mollibus, aedium positu refrigeranti, lavacris nitidis et abundis et collucentibus totiusque villae venustate aquis undique canoris atque avibus personante.
3 Erat ibidem nobiscum simul adulescens philosophiae sectator, disciplinae, ut ipse dicebat, stoicae, sed loquacior inpendio et promptior.
4 Is plerumque in convivio sermonibus, qui post epulas haberi solent, multa atque inmodica de philosophiae doctrinis intempestive atque insubide disserebat praeque se uno ceteros omnes linguae Atticae principes gentemque omnem togatam, quodcumque nomen Latinum rudes esse et agrestes praedicabat atque interea vocabulis haut facile cognitis, syllogismorum captionumque dialecticarum laqueis strepebat kurieuontaV et hsucazontaV et swreitaV aliosque id genus griphos neminem posse dicens nisi se dissolvere. Rem vero ethicam naturamque humani ingenii virtutumque origines officiaque earum et confinia aut contra morborum vitiorumque fraudes animorumque labes, pestilentias asseverabat nulli esse ulli magis ea omnia explorata, comperta meditataque.
5 Cruciatibus autem doloribusque corporis et periculis mortem minitantibus habitum statumque vitae beatae, quem se esse adeptum putabat, neque laedi neque inminui existimabat ac ne oris quoque et vultus serenitatem stoici hominis umquam ulla posse aegritudine obnubilari.
6 Has ille inanes glorias cum flaret iamque omnes finem cuperent verbisque eius defetigati pertaeduissent, tum Herodes Graeca, uti plurimus ei mos fuit, oratione utens "permitte," inquit "philosophorum amplissime, quoniam respondere nos tibi, quos vocas idiotas, non quimus, recitari ex libro, quid de huiuscemodi magniloquentia vestra senserit dixeritque Epictetus, Stoicorum maximus", iussitque proferri dissertationum Epicteti digestarum ab Arriano primum librum, in quo ille venerandus senex iuvenes, qui se Stoicos appellabant, neque frugis neque operae probae, sed theorematis tantum nugalibus et puerilium isagogarum commentationibus deblaterantes obiurgatione iusta incessivit.
7 Lecta igitur sunt ex libro, qui prolatus est, ea, quae addidi; quibus verbis Epictetus severe simul et festiviter seiunxit atque divisit a vero atque sincero Stoico, qui esset procul dubio akwlutoV, ananagkastoV, aparapodistoV, eleuqeroV, euporwn, eudaimonwn, volgus aliud nebulonum hominum, qui se Stoicos nuncuparent atraque verborum et argutiarum fuligine ob oculos audientium iacta sanctissimae disciplinae nomen ementirentur:
8 Eipe moi peri agaqwn kai kakwn. Akoue.
Ilioqen me jerwn anemos Kikonessi pelassen.
9 Twn ontwn ta men estin agaqa, ta de kaka, ta de adiajora. Agaqa men oun aretai kai ta meteconta autwn, kaka de kakia kai ta meteconta kakias, adiajora de kai ta metaxu toutwn, ploutoV, ugeia, zwh, qanatoV, hdonh, ponoV.
10 Poqen oidaV; EellanikoV legei en toiV AiguptiakoiV. Ti gar diajerei touto eipein, h oti DiogeneV en th hqikh h CrusippoV h kleanqhV? BebasanikaV oun ti autwn kai dogma sautou pepoihsai?
11 Deiknue, pws eivqaV en ploiw ceimazesqai; memnesai tauthV thV diairesewV, otan yojhshi to istion kai anakraugaseis; An soi tis kakoscolos pws parastas eiph, lege moi, touV qeouV soi, a prwhn elegeV, mh ti kakia estin to nauaghsai; mh ti kakiaV metecon; ouk ara xulon enseiseiV autw; ti hmin kai soi, anqrwpe; apollumeqa, kai su elqwn paizeis.
12 Ean de se ho Kaisar metapemyhtai kathgoreumenon
* * *
13 His ille auditis insolentissimus adulescens obticuit, tamquam si ea omnia non ab Epicteto in quosdam alios, sed ab Herode in eum ipsum dicta essent.

Le notti attiche di Aulo Gellio, Libro II, 2

L'uso appropriato fatto dall'ex console Erode Attico del passaggio nel quale lo stoico Epitteto ha distinto in modo umoristico il vero Stoico dalla gentaglia di chiacchieroni e sfaccendati che si definivano Stoici, in risposta ad un arrogante e vanaglorioso adolescente, solo apparentemente studente di filosofia.

Mentre eravamo studenti ad Atene, Erode Attico, uomo di rango consolare ed autentica eloquenza greca, spesso mi invitava nelle sue ville vicino alla città, insieme all'onorevole Serviliano e a parecchi altri nostri concittadini, che avevamo abbandonato Roma per la Grecia alla ricerca della cultura.
E lì una volta che eravamo con lui nella villa chiamata Cefisia, durante il calore dell'estate e sotto il bruciante sole autunnale, ci proteggevamo dalla fastidiosa temperatura con l'ombra delle sue spaziose alberature, dei suoi lunghi e gentili corridoi, la fresca collocazione della casa, le sue eleganti piscine con abbondante acqua sorgiva, il fascino della villa nel suo insieme, che era ovunque melodiosa per lo scorrere dell'acqua e per il cantare degli uccelli.
Allora era con noi un giovane studente di filosofia, a sentire lui della scuola Stoica, ma chiacchierone e presuntuoso in modo insopportabile. Durante le conversazioni che sono solitamente portate avanti attorno al tavolo dopo cena, costui spesso usava argomentare dei principi della filosofia in modo inopportuno, eccessivo e inappropriato, assumendo che, paragonati a lui, tutti i più autorevoli oratori greci, tutti i portatori della toga, e la razza Latina in genere, erano dei campagnoli ignoranti. Nel parlare, distribuiva termini inusuali, costruzioni di sillogismi, artifici dialettici, dichiarando che nessuno tranne lui poteva risolvere la "premessa maggiore", la "premessa minore" e la "conclusione", ed altre questioni di questo genere. Per di più, riguardo all'etica e alla natura dell'intelletto umano, all'origine delle virtù con i loro limiti e doveri, oppure d'altro canto i dolori provocati da malattia e peccato, il degrado e la distruzione dell'anima, lui dichiarava che assolutamente nessun'altro aveva investigato, capito e si era impadronito di questi argomenti più di quanto aveva fatto lui. Ancora, credeva che la tortura, il dolore corporale e il pericolo mortale non potevano né ferire né disturbare il benessere dello stato e della condizione di vita che, a sentir lui, aveva raggiunto, e che nessun dolore poteva neanche rannuvolare la serenità del volto e dell'espressione Stoica.
Una volta che costui stava sbrodolando di queste sciocche vanterie, e già tutti, stanchi di queste chiacchere a vanvera, eravamo completamente disgustati e desiderosi di una conclusione, Erode, parlando in Greco come era la sua abitudine, disse: "O grandissimo tra i filosofi, dal momento che noi, che tu definisci profani, non possiamo risponderti, consentimi di leggere da un libro di Epitteto, il più grande degli Stoici, cosa questi pensava e diceva a proposito di un gran discorso del tipo di quelli tuoi". E comandò di portargli il primo volume dei Discorsi di Epitteto, raccolti da Arriano, dove il venerabile vecchio con appropriata severità rimproverava quei giovani che, pur chiamando loro stessi Stoici, non mostravano né virtù né onesta applicazione, ma soltanto blateravano di insignificanti teoremi e dei frutti dei loro studi di queste materie come sono insegnate ai bambini.
Allora, appena il libro fu portato, fu letto il passaggio che ho aggiunto, nel quale Epitteto con pari severità e umorismo distingueva e separava dal vero e autentico Stoico, che era fuor di dubbio privo di limitazioni o costrizioni, non imbarazzato, libero, prospero e felice, quell'altra gentaglia di chiacchieroni che si definivano come Stoici, e lanciando negli occhi dei loro ascoltatori la nera fuliggine delle loro chiacchere e delle loro arguzie, denigravano il nome della santissima disciplina:


«"Parlami del bene e del male" - Ascolta:
Il vento, che mi ha trasportato da Ilio, mi ha guidato tra i Ciconi.»

«Di tutte le cose, alcune sono buone, altre cattive, altre indifferenti. Ora le cose buone sono le virtù e ciò che è loro simile, le cattive sono il vizio e ciò che è simile al vizio, e le indifferenti sono in mezzo alle prime due: ricchezza, salute, vita, morte, piacere, dolore. - "Come sai queste cose?" - Ellanico afferma questo nella sua Storia Egiziana, Ma che differenza ti fa se dici così, oppure che è stato Diogene nella sua Etica, o Crisippo, o Cleante? Hai investigato qualcuno di questi argomenti e ti sei fatto un'opinione per tuo conto? Fammi vedere come sei abituato a comportarti in mezzo ad una tempesta in mare. Ti ricordi questa classificazione quando la vela si spezza e ti metti a urlare? Se qualche sciocco compagno ti si mettesse accanto e ti dicesse: "Dimmi, per amor del cielo, ciò che mi hai detto prima: non è un vizio il subire un naufragio, vero? Non è simile ad un vizio, vero?" Non gli tireresti addosso un pezzo di legno gridandogli: "Che devo fare con te, amico? Noi stiamo per morire e tu mi vieni a raccontare barzellette." Certo che se Cesare dovesse chiamarti a difenderti da una accusa...»
Sentendo queste parole, quell'arrogantissimo giovane rimase muto, proprio come se quella diatriba non fosse stata pronunciata da Epitteto contro qualcun altro, ma proprio contro di lui da Erode.

AVLI GELLI NOCTES ATTICAE: LIBER IX, 2

Qualibus verbis notarit Herodes Atticus falso quempiam cultu amictuque nomen habitumque philosophi ementientem.

1 Ad Herodem Atticum, consularem virum ingenioque amoeno et Graeca facundia celebrem, adiit nobis praesentibus palliatus quispiam et crinitus barbaque prope ad pubem usque porrecta ac petit aes sibi dari eiV artouV.
2 Tum Herodes interrogat, quisnam esset.
3 Atque ille vultu sonituque vocis obiurgatorio philosophum sese esse dicit et mirari quoque addit, cur quaerendum putasset, quod videret.
4 "Video" inquit Herodes "barbam et pallium, philosophum nondum video.
5 Quaeso autem te, cum bona venia dicas mihi, quibus nos uti posse argumentis existimas, ut esse te philosophum noscitemus?"
6 Interibi aliquot ex his, qui cum Herode erant, erraticum esse hominem dicere et nulli rei incolamque esse sordentium ganearum, ac nisi accipiat, quod petit, convicio turpi solitum incessere; atque ibi Herodes: "demus" inquit "huic aliquid aeris, cuicuimodi est, tamquam homines, non tamquam homini",
7 et iussit dari pretium panis triginta dierum.
8 Tum nos aspiciens, qui eum sectabamur: "Musonius" inquit "aeruscanti cuipiam id genus et philosophum sese ostentanti dari iussit mille nummum, et cum plerique dicerent nebulonem esse hominem malum et malitiosum et nulla re bona dignum, tum Musonium subridentem dixisse aiunt: axioV oun estin arguriou.
9 Sed hoc potius" inquit "dolori mihi et aegritudini est, quod istiusmodi animalia spurca atque probra nomen usurpant sanctissimum et philosophi appellantur.
10 Maiores autem mei Athenienses nomina iuvenum fortissimorum Harmodii et Aristogitonis, qui libertatis recuperandae gratia Hippiam tyrannum interficere adorsi erant, ne umquam servis indere liceret, decreto publico sanxerunt, quoniam nefas ducerent nomina libertati patriae devota servili contagio pollui.
11 Cur ergo nos patimur nomen philosophiae inlustrissimum in hominibus deterrimis exsordescere? Simili autem" inquit "exemplo ex contraria specie antiquos Romanorum audio praenomina patriciorum quorundam male de republica meritorum et ob eam causam capite damnatorum censuisse, ne cui eiusdem gentis patricio inderentur, ut vocabula quoque eorum defamata atque demortua cum ipsis viderentur."

Le notti attiche di Aulo Gellio, Libro IX, 2

Con quali parole Erode Attico riprese un uomo che falsamente attraverso l'apparenza e l'abbigliamento si attribuiva il titolo e la disposizione di filosofo.

Una volta, io ero presente, venne di fronte a Erode Attico, persona di rango consolare e celebre per il carisma personale e per la sua eloquenza greca, un uomo in mantello e lunghi capelli, e con la barba che quasi raggiungeva il petto, e domandò che gli fosse dato del denaro «per il pane».
Erode gli domandò allora chi fosse e quello, con voce e espressione adirata, rispose di essere un filosofo, aggiungendo che si meravigliava che Erode ritenesse necessario di domandare quello che doveva essergli evidente.
«Quello che mi è evidente», disse Erode, «è una barba e un mantello; invece non mi è evidente il filosofo. Ora, ti prego, sii così gentile e dimmi, quali argomenti tu pensi che dovremmo considerare, per riconoscere in te un filosofo?» Nel frattempo uno dei compagni di Erode gli raccontò che il tizio era un vagabondo buono a nulla, frequentatore di sordide taverne, e che aveva l'abitudine di diventare vergognosamente fastidioso se non riceveva quello che chiedeva. Allora Erode disse: «Diamogli del denaro, qualunque sia il suo carattere, non perché sia un uomo costui, ma perché siamo uomini noi», e ordinò di dargli denaro sufficiente ad acquistare pane per trenta giorni.
Poi Erode, volgendosi a quelli di noi che gli eravamo accanto, disse: «Musonio ha ordinato di dare mille monete d'oro a un imbroglione di questo genere che si spacciava per filosofo, e quando parecchi gli raccontarono che il tipo era un furfante e mascalzone, capace di nulla di buono, Musonio, si racconta, replicò con un sorriso: "allora quel denaro se lo merita". Tuttavia», disse Erode, «è questo che mi dà maggior dolore e irritazione, che bestie sordide e malvagie di questo genere usurpano un titolo santissimo facendosi chiamare filosofi. Eppure i miei antenati Ateniesi avevano reso illegale con pubblico decreto che gli schiavi ricevessero persino il solo nome di quegli eccellenti giovani Armodio e Aristogitone, che per restaurare la libertà avevano cercato di uccidere il tiranno Ippia, e questo perché ritenevano empio che il nome di uomini che avevano sacrificato sé stessi per la libertà del loro paese fosse contaminato dal contatto con la schiavitù. Perchè allora permettiamo che il titolo glorioso di filosofo sia profanato in persone spregevolissime? E per di più», disse, «come esempio simile ma in un caso di natura opposta, sento che i Romani antichi decretarono che i nomi di certi patrizi che avevano generato il male per la Repubblica e che per questo motivo erano stati condannati a morte, non potessero essere più dati a nessun patrizio della stessa famiglia, affinché la stessa parola sembrasse disonorata e mandata a morte, insieme agli stessi malfattori.»


Il plurimiliardario e potente Erode Attico dovette considerare un vero e proprio affronto quello di incappare in due rognose vicende giudiziarie. Proprio lui che, per tradizione di famiglia, si vantava di appartenere alla stirpe degli Eacidi: i discendenti di Eaco, il sommo giudice infernale che, insieme ai due fratelli Minosse e Radamanto, era stato posto da Zeus ad amministrare la giustizia, quella definitiva da Corte di Cassazione, nel mondo dei trapassati.

Si possono così spiegare, anche in chiave psicologica e di recupero di immagine, le reazioni che ebbe sia rispetto al primo processo, relativo ai lavori per l'acquedotto della Troade, tenutosi ad Atene sotto l'imperatore Adriano, sia rispetto al secondo, tenutosi a Roma sotto Marco Aurelio, per la "strana morte" di Annia Regilla.

Erode Attico visto dal "collega" sofista Flavio Filostrato

Su Erode Attico bisogna tenere presente quanto segue. Il sofista Erode apparteneva per parte di padre ad una famiglia che per due volte aveva esercitato il consolato e discendeva dalla stirpe degli Eacidi, che erano stati alleati della Grecia nella guerra contro i Persiani. Non disdegnò pertanto né Milziade né Cimone1, uomini ambedue valorosissimi e meritevoli della più grande considerazione sia da parte degli Ateniesi che degli altri Greci per la loro partecipazione a quella impresa. Milziade infatti riportò la prima vittoria sui Persiani, mentre Cimone fece pagare ad essi il fio per la tracotanza mostrata dopo2.

Erode fece uso delle sue ricchezze meglio di qualsiasi altro; cosa che ritengo non solo non facile a farsi, ma fra le più ardue e difficili. Infatti coloro che ne abbondano a dismisura sono soliti far pesare la loro arroganza sugli altri uomini, i quali per questo vituperano Platone per cieco. Ma se in altre occasioni quel dio sembrò tale, per quanto riguarda Erode riacquistò perfettamente la vista. Infatti costui ebbe occhi per gli amici, per le città e per le genti tutte, come uomo che si dava cura di tutti e che riponeva il deposito delle sue ricchezze negli animi di coloro che ne partecipavano con lui.

Era solito dire infatti che colui che voleva fare buon uso delle ricchezze doveva aiutare i bisognosi affinché non avessero più bisogno, ma anche coloro che non l'avevano, affinché non si trovassero ad averlo.

Il denaro non fatto circolare e quello conservato a risparmio lo definiva «ricchezza morta» e i forzieri nei quali alcuni ripongono il proprio denaro «carceri della ricchezza» e quelli che ritenevano addirittura di dover offrire sacrifici alle ricchezze segretamente riposte li chiamava «Aloeadi, che sacrificano ad Ares dopo averlo incatenato»3.

Molte furono le fonti della sua ricchezza e provenienti da varie famiglie, qma la quantità maggiore gli venne da suo padre e da sua madre.

Suo nonno Ipparco aveva subito la confisca delle sue sostanze sotto l'accusa di aspirare alla tirannide, accusa che gli Ateniesi non avevano perseguito, ma che non era rimasta nascosta all'imperatore4. Attico, figlio di costui e padre di Erode, pur essendo diventato povero da ricco che era, non fu abbandonato dalla fortuna, che gli fece scoprire un tesoro immenso in una delle case di sua proprietà, nelle vicinanze del teatro5.

Per l'esorbitante grandezza di esso mostrandosi più preoccupato che lieto, scrisse all'imperatore una lettera così concepita: «Ho trovato, o imperatore, un tesoro nella mia casa. Cosa vuoi che ne faccia?» [θεσαυρὸν, ω̉ˆ βασιλευ̃, ε̉πὶ τε̃ς ε̉μαυτυ̃ οι̉κίας εύ΄ρηκα· τί ο̉ˆ ν περὶ αυ̉του̃ κελεύεις;] alla quale l'imperatore (che allora era Nerva) rispose: «Usa pure ciò che hai trovato» [χρω̃ οί̃ς εύ΄ρηκας·]. Ma, persistendo Attico nella sua eccessiva prudenza e insistendo sul fatto che la quantità di quelle era superiore alla sua condizione, quello gli ripeté: «Allora abusa di ciò che Ermes ti ha donato, perché è tuo» [καὶ παραχρω̃ τω̃ έρμαίω˛, σὸν γάρ ε̉στιν]. E così Attico diventò ricco e più ricco ancora Erode, in quanto oltre ai beni paterni confluirono in lui anche quelli materni non di molto inferiori.

Anche la magnanimità di Attico fu veramente straordinaria. Infatti quando suo figlio Erode era governatore delle libere città dell'Asia, aveva notato che Troia era priva di bagni, che gli abitanti attingevano dai pozzi acqua fangosa e che scavavano cisterne per raccogliere le acque piovane, per cui scrisse all'imperatore Adriano chiedendogli di non lasciar perire per siccità quell'antica città, felicemente situata presso il mare, ma di elargirle 3.000.000 dracme per procurarsi l'acqua, dato che somme molto maggiori aveva già concesso ad alcuni villaggi.

L'imperatore approvò quanto gli aveva scritto, anche perché concordava con le sue intenzioni, e incaricò lo stesso Erode di sovrintendere all'operazione dell'acqua. Ma essendo aumentata la spesa a circa 7.000.000 dracme e avendo scritto i proconsoli d'Asia all'imperatore che ritenevano inammissibile che i tributi di cinquecento città venissero spesi per la fonte di una sola, l'imperatore si lagnò con Attico, ma questi, da uomo generosissimo qual era, rispose: «Non inquietarti, o imperatore, per una faccenda di così poco conto. Ciò che è stato speso oltre 3.000.000 dracme io lo darò a mio figlio e mio figlio alla città».

Anche il testamento, nel quale lasciava agli Ateniesi una mina a testa all'anno, dimostra la generosità dell'uomo, della quale del resto egli fece uso anche in altre occasioni, offrendo spesso alla dea Atena un'ecatombe in un solo giorno, invitando gli Ateniesi al banchetto sacro distinti per tribù e famiglie e, ogni volta che si ripetevano le feste Dionisie e il simulacro di Dioniso discendeva dall'Accademia6, offrendo vino ai cittadini e agli stranieri distesi su letti di edera nel Ceramico.

Ma, poiché ho fatto menzione del testamento di Attico, è necessario che riferisca anche i motivi per i quali Erode venne in urto con gli Ateniesi. Il testamento dunque era quello che ho detto, testamento che Attico aveva steso in quel modo per suggerimento dei suoi liberti, i quali, conoscendo l'animo ostile di Erode verso liberti e schiavi, avevano voluto procurarsi così un rifugio presso gli Ateniesi come garanti del lascito. Quale del resto fosse il rapporto tra i liberti e Erode, lo dimostra l'invettiva che scrisse contro di essi, facendo ricorso a tutti gli aculei della sua lingua.

Pubblicato che fu il testamento, gli Ateniesi si accordarono con Erode in modo che, versando egli cinque mine a ciascuno in una sola volta, si sarebbe esentato dall'obbligo del versamento annuale; ma, quando quelli si presentarono ai banchi per ritirare la somma pattuita, egli lesse da cima a fondo l'elenco dei denari avuti in prestito dai loro padri e dai loro nonni e che dovevano ai suoi antenati, costringendoli a loro volta al pagamento, di modo che alcuni ebbero solo una piccola somma, altri niente, mentre altri furono addirittura trattenuti nella piazza del mercato, in quanto debitori di una parte del denaro. Questo comportamento esasperò gli Ateniesi, che si sentivano defraudati del lascito, per cui non cessarono di odiarlo neppure quando mostrò di elargire ad essi i più grandi benefici. E appunto per questo si disse che lo stadio venisse chiamato Panatenaico, perché costruito con le somme sottratte a tutti gli Ateniesi.

Ciononostante esercitò ad Atene l'ufficio di Arconte eponimo e di Sovrintendente delle feste Panellenie e quando ebbe l'incarico di Sovrintendente anche di quelle Panatenee, annunciò: «Voi, o Ateniesi, e quanti fra i Greci verranno e quanti fra gli atleti vorranno gareggiare, tutti accoglierò in uno stadio di marmo». E, come aveva promesso, in uno spazio di quattro anni portò a compimento lo stadio al di là dell'Ilisso, elevando un monumento superiore ad ogni ammirazione, giacché nessun altro teatro può essere paragonato ad esso7.

Quanto alle Panatenee ho sentito dire anche questo. Un peplo8, più bello a vedersi di qualsiasi opera pittorica, con il grembo gonfiato dalla brezza, veniva appeso all'albero di una nave, che scivolava, senza che nessuna bestia da soma la tirasse, per opera di macchine sotterranee, e, partendo dal Ceramico, scortata con tutti gli onori, giungeva all'Eleusinio, e, dopo averlo aggirato, oltrepassava il Pelasgico, e, così guidata, giungeva presso il Pizio, dove ora è ormeggiata.

L'altro punto terminale dello stadio è occupato dal tempio della Fortuna con la statua in avorio della dea, come quella che governa ogni cosa.

Egli modificò anche l'abbigliamento dei giovani Ateniesi nella forma attuale, facendoli vestire per primo con clamidi bianche, mentre fino allora sedevano accanto alle assemblee e partecipavano alle processioni solenni indossando tuniche nere, in segno di pubblico compianto per la morte dell'araldo Copreo9, che gli Ateniesi avevano ucciso, mentre cercava di strappare dall'altare i figli di Eracle.

Agli Ateniesi dedicò anche il teatro in onore di Regilla10, costruito con le soffittature in cedro, un materiale già costoso nella fabbricazione delle statue. Questi due monumenti, dei quali non esiste in tutto il mondo romano nulla di somigliante, si trovano dunque ad Atene.

Meriterebbe un discorso anche il teatro con il soffitto a cassettoni, che fece costruire a Corinto, inferiore a quello di Atene, ma fra i pochi per altre ragioni celebrati, le statue dell'Istmo, e cioè quella del colosso di Poseidone Istmio e quella di Anfitrite e altre con le quali riempì il tempio, senza dimenticare neppure il delfino di Melicerte11.

Dedicò anche ad Apollo Pizio lo stadio di Pito e a Zeus l'acquedotto di Olimpia, mentre ai Tessali e ai Greci che abitano lungo il golfo Maliaco donò le piscine delle Termopili, salutari per gli ammalati.

Popolò con nuovi coloni nell'Epiro Orico, ormai decaduta, e in Italia Canosa, rendendola abitabile col rifornirla dell'acqua della quale era priva. Aiutò anche in diversi modi le città dell'Eubea, del Peloponneso e della Beozia.

Ma, pur avendo portato a termine opere di tale importanza, riteneva di non aver fatto ancora nulla di veramente notevole, se non avesse potuto compiere il taglio dell'Istmo di Corinto, ritenendo egli un'opera veramente eccezionale dividere la terra ferma e unire due mari, riducendo un lungo viaggio per mare ad una navigazione di 26 stadi.

Egli desiderava ardentemente compiere questa impresa, ma non osava chiederlo all'imperatore per non cadere in disgrazia, dando l'impressione di voler mettere mano ad un'opera per la quale non era bastato neppure Nerone.

Lo fece comunque sapere in questo modo. Come ho sentito raccontare dall'ateniese Ctesidemo, viaggiava Erode verso Corinto con lui seduto accanto, quando, giunto presso l'Istmo, esclamò: «Posidone, io lo voglio, ma nessuno me lo concederà» Stupito Ctesidemo per queste parole, gliene chiese il motivo. Ed allora Erode rispose: «Già da molto tempo mi sforzo di lasciare ai posteri la testimonianza di un'impresa che mi facaa conoscere per quello che sono, ma mi sembra di non poter raggiungere ancora una tale gloria». Ctesidemo allora si profuse in lodi sia dei suoi discorsi che delle imprese da lui compiute, tali da non essere superate da alcun altro. E allora Erode continuò: «Le cose delle quali parli sono caduche, perché soggette al tempo; quanto ai miei discorsi altri li saccheggiano, chi criticando questo e chi quello, ma il taglio dell'Istmo sarebbe stato un'impresa immortale, tale da essere constderata impossibile per le capacità umane. Io credo infatti che anprire una wa nell'Istmo richieda l'intervento piuttosto di Posidone che di un semplice uomo».

Quello che comunemente chiamavano l'Eracle di Erode12 era un giovinetto con nel volto la prima lanuggine, simile ad un grande Celta dell'altezza di otto piedi. Erode lo descrive in una delle sue lettere a Giuliano13, dicendo che portava i capelli lunghi in giusta misura, che aveva i sopraccigli villosi, che si congiungevano l'un l'altro, qu,asi fossero uno solo, che emanava dagli occhi una luce vivida, indizio di un carattere alquanto impetuoso, che aveva il naso adunco e la nuca grossa, quest'ultima dovuta piuttosto alle fatiche che all'abbondanza del cibo. Aggiungeva anche che aveva un petto ben formato e graziosamente assottigliato, le gambe leggermente arcuate verso l'esterno e tali da permettere un'andatura celere, che era ricoperto da una veste di pelli di lupo cucite insieme, che combatteva contro i cinghiali, gli sciacalli, i lupi e i tori infuriati e che di queste lotte portava come testimonianza le cicatrici.

Secondo alcuni questo Eracle era stato generato dalla terra fra le genti della Beozia, ma Erode afferma di aver sentito uno che diceva che sua madre era invece una bifolca, dotata di tale forza da condurre al pascolo il bestiame, mentre suo padre era Maratone, un eroe rustico, la cui statua si trova a Maratona.

Alla domanda di Erode se fosse anche immortale Eracle disse: «Sono più longevo di un mortale». Richiesto poi di quali cibi si nutrisse, rispose: «Faccio uso per lo più di latte: mi nutrono le capre e i pecorai14 nonché le mucche e le giumente fresche di parto, ma anche dalle poppe delle asine ricavo un latte gustoso e leggero. Quando riesco ad ottenere della farina d'orzo, ne mangio dieci chenici15, e questo cibo me lo procurano i contadini di Maratona e della Beozia, i quali mi hanno soprannominato anche Agatione16, perché sembra che porti ad essi fortuna». «E nella lingua - chiese Erode - come fosti istruito e da chi, dato che non mi sembra che tu sia un uomo ignorante». E Agatione: «Il centro dell'Attica è una buona scuola per colui che desidera imparare a parlare in modo appropriato. Infatti, mentre gli Ateniesi della città, accogliendo dietro compenso la gioventù proveniente dalla Tracia, dal Ponto e da altre regioni barbariche, si fanno corrompere da costoro la propria lingua, più di quanto essi contribuiscano a migliorare la lingua di quelli, l'entroterra, non avendo rapporti con i barbari, conserva un'espressione incorrotta e nella lingua fa risuonare l'attico più puro». «Intervenisti mai - chiese ancora Erode - ad una festa pubblica?». E Agatione: «Sì a Pito, ma stando lontano dalla folla e ascoltando da un'altura del Parnaso quelli che partecipavano agli agoni musicali. E a me sembrò che i greci savi non facessero una buona azione, ascoltando con compiacimento le sciagure dei Pelopidi e dei Labdacidi, perché i miti ai quali si presta fede diventano persuasori di azioni nefande».

Vedendo Erode che quello filosofava, gli chiese anche che cosa pensasse delle gare ginniche, ed egli: «Mi facevo le più grasse risate, quando vedevo uomini gareggiare fra loro nel pancrazio, nel pugilato, nella corsa, nella lotta e venire per questo incoronati. Si incoroni piuttosto l'atleta capace di superare nella corsa il cervo o il cavallo e colui che si esercita in contese più difficoltose, azzuffandosi con un toro o un orso, cosa che io faccio ogni giorno, dato che la fortuna mi ha privato di un combattimento più ambito da quando l'Acarnania non nutre più leoni».

Meravigliato per tutto questo, Erode lo invitò a mangiare con lui, e Agatione rispose: «Verrò da te domani verso mezzogiorno al tempio di Canobo17. Cerca di procurarti un cratere di quelli che si trovano nel tempio, pieno di latte, non munto però da una donna». Venne infatti il giorno dopo all'ora indicata e fiutata la tazza, disse: «Questo latte non è puro; ha l'odore della mano di una donna» e, detto questo, se ne andò senza berlo. Allora Erode, ripensando a quello che Agatione aveva detto della donna, mandò alla fattoria alcuni che si informassero della verità della cosa e, venuto a sapere che era proprio cosl, capì che la natura di quell'uomo era divina.

Quelli poi che accusano Erode di aver alzato quasi le mani contro Antonino sul monte Ida, nel tempo in cui era governatore delle città libere e Antonino18 di tutte le città dell'Asia, mi sembra che non conoscano l'orazione forense di Demostrato contro Erode, nella quale, pur diffamandolo abbondantemente, non fa mai menzione di questo atto di violenza, proprio perché non è mai stato compiuto. E' vero che uno scontro fra di essi ci fu, come del resto può avvenire in località difficili ed anguste, ma non fecero ricorso alle mani, perché Demostrato certamente non avrebbe trascurato di narrare minuziosamente il fatto nella causa contro Erode, nella quale lo attacca tanto odiosamente da volgere in biasimo anche ciò che di lui è meritevole di lode.

Fu rivolta contro Erode anche un'accusa di omicidio concepita in questi termini. Sua moglie Regilla, resa gravida da lui, era all'ottavo mese, quando egli per un futile motivo aveva ordinato al suo liberto Alcimedonte di percuoterla; colpita al ventre, la donna aveva abortito ed era morta. Per questo fatto, come se fosse vero, lo accusa di omicidio Bradua, fratello di Regilla, uno dei più stimati fra i consolari, che portava attaccato ai sandali il segno della sua nobiltà, consistente in una fibbia d'avorio lunata19.

Presentatosi dunque Bradua in tribunale a Roma, senza portare alcuna prova convincente circa la causa da lui intentata, ma profondendo una grande quantità di parole sulla sua nobiltà, Erode schernendolo disse: «Tu hai la tua nobiltà nei talloni». E vantandosi ancora l'accusatore per i benefici da lui arrecati ad una città dell'Italia, Erode con molta dignità aggiunse: «Anch'io potrei dire molte cose simili sul mio conto, in qualsiasi parte della terra dovessi essere giudicato». Gli giovò a sua difesa in primo luogo il fatto di non aver mai dato un tale ordine contro Regilla, in secondo luogo l'averla rimpianta oltre misura dopo morta. E, sebbene venisse calunniato anche di questo come fosse un atteggiamento simulato, vinse tuttavia la verità.

E infatti non avrebbe dedicato alla sua memoria un teatro cosi stupendo, né avrebbe dilazionato per lei il ballottaggio della sua seconda elezione a console, se non fosse stato innocente, come non avrebbe offerto al tempio di Eleusi gli ornamenti di lei, se nel portarli fosse stato macchiato dal misfatto di uxoricidio, perché con quella azione avrebbe spinto le dee a vendicare il delitto, piuttosto che a concedergli il perdono.

Per lei mutò anche l'aspetto della casa, oscurando i colori vivaci delle pareti con veli, tinteggiature e marmo di Lesbo, un tipo di marmo tetro e livido, per cui si dice che anche Lucio20, uomo di grande dottrina, assunto come suo consigliere, non riuscendo a smuoverlo da quell'atteggiamento, prendesse a beffarlo.

Anche ciò che segue non voglio trascurare di narrarlo, essendo ritenuto degno di menzione da parte di persone dotte. Era Lucio uomo fra i più rinomati per dottrina; dedicatosi allo studio della filosofia con Musonio di Tiro, mostrava acume nelle risposte e sapeva fare uso di piacevole amabilità quando si presentava il momento. Essendo dunque familiarissimo di Erode, gli fu vicino quando era più profondamente afflitto per il lutto, cercando di consigliarlo con queste parole: «O Erode, tutto ciò che basta è fissato dal giusto mezzo, e su questo tema ho sentito discutere lungamente Musonio, ne ho discusso a lungo anch'io ed ho ascoltato anche te, quando ad Olimpia lo raccomandavi ai Greci, dicendo che anche i fiumi dovevano scorrere in mezzo agli argini. Dove sono finite ora quelle tue convinzioni? Fuori di te stesso, ti comporti in modo deplorevole, mettendo a repentaglio il tuo buon nome» e con molte altre ancora. Ma, non riuscendo a persuaderlo, sdegnato se ne stava andando, quando vide dei servitori che in una fontana della casa ripulivano dei rafani ed avendo chiesto ad essi a chi servissero come cibo ed avendo avuto in risposta che li preparavano per Erode, disse: «Erode fa torto a Regilla, nutrendosi di rafani bianchi in una casa tutta nera». Queste parole furono riferite ad Erode e non appena egli le udì, fece togliere immediatamente i segni di lutto dalla casa per non diventare oggetto di riso da parte dei dotti.

A proposito di Lucio è degno di ammirazione anche ciò che segue. L'imperatore Marco nutriva grande interesse per il filosofo beota Sesto21, frequentandolo e recandosi spesso a casa sua. Essendo giunto Lucio da poco a Roma, chiese all'imperatore che usciva da casa dove fosse diretto e per quale scopo, e avendogli risposto Marco: »E' bello l'apprendere anche per un vecchio, e pertanto vado da Sesto per imparare tutte quelle cose che ancora non so», egli, alzando le mani al cielo, esclamò: «O Zeus, l'imperatore dei Romani già vecchio va a scuola, portandosi appesa la tavoletta per scrivere, mentre il mio re Alessandro è morto all'età di trentadue anni». Basta ciò che ho detto per far capire quale genere di filosofia coltivasse Lucio, come è sufficiente a far conoscere l'uomo, allo stesso modo che l'assaggio permette di identificare la qualita del vino.

E così ebbe fine il lutto di Erode per Regilla. Quello invece per la figlia Panatenaide fu lenito per opera degli Ateniesi, che le diedero sepoltura in città e decretarono di cancellare dal calendario il giorno in cui era morta22. Ma, quando gli morì anche l'altra figlia, chiamata Elpinice, si gettò disteso sul pavimento, battendo con i pugni la terra e gridando: «Quali esequie, figlia mia, dovrò farti? Che cosa devo chiudere con te nel sepolcro?». Ma il filosofo Sesto, che per caso era presente, gli disse: «Tu darai molto a tua figlia, se saprai contenere il tuo pianto».

Ma egli piangeva in maniera tanto eccessiva le figlie anche perché era esacerbato con il figlio Attico, che riteneva poco intelligente, inadatto allo studio delle lettere e di scarsa memoria. Ora, poiché costui stentava ad apprendere l'alfabeto, venne in mente ad Erode di allevare insieme a lui ventiquattro fanciulli della sua stessa età, designando ciascuno con una lettera dell'alfabeto, affinché con i nomi applicati ai fanciulli fosse costretto a imparare anche le lettere dell'alfabeto23. Lo vedeva anche dedito al vino e ad amori insensati, per cui già in vita presagiva con questo verso quella che sarebbe stata la sorte delle sue sostanze: «Uno e per di più stolto rimane nella grande casa»24. E pertanto morendo gli lasciò solo i beni materni, mentre trasferì il proprio patrimonio ad altri.

Ma agli Ateniesi questa decisione sembrò disumana, non ricordando essi Achille, Polluce e Memnone che, pur essendo stati da lui adottati, aveva pianto come propri figli, perché erano giovani eccellenti, d'animo nobile, desiderosi di apprendere e meritevoli di venire da lui allevati. Fece erigere pertanto delle statue con le loro immagini in atto di cacciare o di ritornare dalla caccia o di prepararsi ad essa, alcune nei boschi, altre nei campi, altre presso le fonti, altre ancora all'ombra dei platani, e questo non nascostamente, ma minacciando maledizioni per chi le avesse mutilate o rimosse. Del resto non li avrebbe esaltati tanto se non li avesse riconosciuti degni di lode. Rimproverandolo poi i Quintili25, durante il loro proconsolato in Grecia per queste statue come stravaganti, egli ribatté: «E che vi importa, se mi diverto con questi miei poveri marmi?».

La contesa che egli ebbe con i Quintili nacque, come dicono i più, durante i giochi Pitici, in quanto erano di pareri diversi circa le competizioni musicali, secondo alcuni invece per essersi preso gioco Erode di essi in presenza di Marco. Vedendo infatti che, nonostante fossero Troiani, venivano tenuti in grande considerazione dall'imperatore, esclamò: «Io rimprovero anche lo Zeus di Omero, perché ha cari i Troiani». Ma la causa più vera è la seguente. Avendo gli Ateniesi invitato ad una assemblea i due Quintili quand'erano proconsoli della Grecia, si lamentarono con essi di essere oppressi dalla tirannide, facendo allusione ad Erode, e chiesero alla fine che quanto avevano detto venisse portato alle orecchie dell'imperatore. E poiché i Quintili, provando compassione per quella popolazione, avevano riferito senza indugio all'imperatore ciò che avevano udito, Erode cominciò a dire che essl gli tendevano insidie, incitando contro di lui gli Ateniesi. Dopo quella assemblea si sollevarono anche uomini come Demostrato, Praxagora, Mamertino e molti altri, che nella pubblica amministrazione erano ostili ad Erode. Egli allora li accusò di istigare la popolazione contro di lui e li portò davanti al tribunale del governatore, ma essi nascostamente ricorsero all'imperatore Marco, confidando nel suo animo ben disposto verso il popolo e nella situazione favorevole, dato che l'imperatore era convinto che di quelle macchinazioni per le quali aveva in sospetto Lucio26, da quando era diventato suo collega nell'impero, fosse complice anche Erode

L'imperatore si trovava allora presso le popolazioni della Pannonia, avendo come base delle operazioni Sirmio27, e Demostrato e quelli del suo seguito alloggiavano presso i suoi quartieri, avendo egli concesso che usufruissero delle provvigioni e chiedendo anzi spesso se avessero bisogno di altro. Non solo egli era convinto di doversi mostrare benevolo verso di essi, ma ne era persuaso anche dalla moglie e dalla figlioletta, che parlava ancora balbettando e che, in particolar modo, con espressioni carezzevoli, gettandosi sulle sue ginocchla, lo supplicava di salvarle gli Ateniesi.

Erode invece abitava nel suburbio, dove sorgevano torri di varia grandezza e dove era giunto insieme a due gemelle nubili di meravigliosa bellezza, che aveva allevate fin dall'infanzia e aveva adibito al suo servizio come coppiera e cuoca, chiamandole le sue figliolette e avendole care come tali (erano esse le figlie di Alcimedonte, un suo liberto). Ora, mentre queste dormivano in una delle torri, ritenuta la più sicura, un fulmine, penetratovi di notte, le uccise.

Erode impazzì quasi per quella sciagura e si recò al tribunale dell'imperatore ancora fuori di sé, desideroso solo di morire. Giuntovi, cominciò a lanciare invettive contro l'imperatore senza ornare il suo discorso con figure retoriche, per quanto ci si sarebbe aspettato che un uomo esercitato in questo genere di oratoria riuscisse a frenare la propria ira, e, persistendo nel suo linguaggio aggressivo e spoglio, esclamò: «E' questo quello che guadagno per aver dato ospitalità a Lucio28, che tu mi mandasti? Su questi fondamenti mi giudichi, sacrificandomi ai capricci di una donna e di una bambina di tre anni?». E poiché il prefetto del pretorio Basseo lo minacciava di morte, Erode gli disse: «Amico mio, un vecchio ha ben poche cose da temere». E nel dire queste parole se ne andò dal tribunale, lasciando ancora molta acqua nella parte superiore della clessidra.

Ma noi fra le azioni notevoli compiute da Marco come filosofo dobbiamo includere anche il suo comportamento in questa causa. Non aggrottò infatti le sopracciglia né mutò aspetto, come sarebbe potuto accadere con un qualsiasi altro arbitro, ma, rivoltosi agli Ateniesi, disse: «Fate la vostra difesa, o Ateniesi, anche se Erode non ve lo permette». E, mentre la ascoltava si doleva tacitamente per molte cose, ma, quando gli fu letto il decreto votato dagli Ateniesi nel quale Erode veniva apertamente accusato come colui che si guadagnava subdolamente i magistrati greci col miele abbondante della sua eloquenza, ed essi ad un certo punto esclamarono: «O miele amaro!» e ancora: «Beati coloro che sono morti durante la peste!» si sentì il cuore talmente sconvolto da ciò che aveva udito, da erompere apertamente in pianto. E poiché la difesa degli Ateniesi conteneva sia l'accusa contro Erode che quella contro i suoi liberti, Marco rivolse la sua ira contro questi ultimi, infliggendo ad essi la pena « più mite possibile» (con questa espressione egli definiva il tenore delle sue sentenze); condonò invece la pena ad Alcimedonte, dicendo che per lui era già una punizione suffficiente la sventura che lo aveva colpito con la morte delle figlie. E così Marco condusse il processo in maniera veramente degna di un filosofo.

Alcuni attribuiscono ad Erode anche la pena dell'esilio sebbene in esilio non fu mai, e dicono che soggiornò ad Orico nell Epiro, una località che egli stesso aveva colonizzato, come la dimora più confacente alle sue condizioni fisiche. Ora, è vero che abitò in quella cittadina, essendosi ammalato colà e avendo poi offerto colà sacrifici per la salute recuperata, ma l'esilio né gli fu mai inflitto, né lo subì.

Di questa mia affermazione porterò come testimonio lo stesso divo Marco. Infatti dopo le vicende della Pannonia Erode era andato ad abitare in Attica presso i demi che gli erano più cari di Maratona e di Cefisia, dove la gioventù, che da ogni parte affluiva ad Atene per il desiderio di sentirlo declamare, pendeva dalle sue labbra. Ma, volendo sincerarsi se l'imperatore era offeso con lui per ciò che era accaduto in tribunale, gli mandò una lettera che non conteneva una difesa, ma piuttosto una rimostranza: gli diceva infatti di meravigliarsi per quale motivo non gli inviasse più sue lettere, mentre prima gli scriveva tanto spesso, da fargli giungere talvolta addirittura tre corrieri in uno stesso giorno, l'uno sulle orme dell'altro.

L'imperatore gli scrisse allora una lunga lettera su argomenti vari, temperando le sue parole con espressioni di mirabile urbanità. Traendo da essa quanto riguarda la narrazione presente, ne darò ora notizia. La lettera cominciava dunque con queste parole: «Ti saluto, amico Erode» e, dopo aver parlato degli accampamenti invernali, dove allora si trovava, e rimpianta la moglie, mancatagli da poco29, e dopo aver aggiunto ancora qualche altra notizia sui suoi malanni fisici, scrive quanto segue: «Ti auguro di star bene e, per quanto mi riguarda, di considerarmi ben disposto verso di te e di non credere di aver subito un torto, se, dopo aver scoperto che alcuni dei tuoi erano colpevoli, li ho puniti con una pena che era la più mite possibile. Di ciò dunque non adirarti con me. Se invece sono stato per te motivo di afflizione in qualche cosa o lo sono ancora, chiedimi la dovuta riparazione nel tempio di Atena della tua città, in occasione dei misteri. Avevo fatto voto infatti, quando la guerra maggiormente infuriava, di venire iniziato anche ai misteri e che questo fosse fatto sotto la tua guida». Tale fu l'apologia di Marco tanto benevola quanto ferma.

Chi dunque avrebbe parlato in questi termini ad uno punito da lui con l'esilio o avrebbe mandato in esilio uno al quatle riteneva giusto rivolgere cosl la parola? Corre voce anche che Cassio30, quando governava le province orientali, stesse tramando una congiura contro Marco e che Erode lo redarguisse in una lettera di tale tenore: «Erode a Cassio. Sei impazzito?», lettera che dobbiamo considerare non solo come un rimprovero, ma anche come dimostrazione dell'energia di un uomo, che in difesa dell'imperatore prestava le armi della propria intelligenza.

Quanto all'orazione che Demostrato pronunciò contro Erode, mi sembra che sia fra le più meritevoli di ammirazione. Lo stile di essa quanto a carattere è uniforme, la gravità la pervade dall'inizio alla fine, ma i modi dell'espressione sono molteplici e fra loro dissimili, anche se degni di lode.

Ammetto anche che questa orazione, in odio ad Erode, fu apprezzata dai suoi denigratori, per il fatto che in essa un uomo tanto importante veniva maltrattato. Ma come egli sapesse mostrarsi forte di fronte alle ingiurie potrà dimostrarlo anche ciò che egli disse una volta al cinico Proteo31 ad Atene. Era Proteo uno di quelli che coltivano la filosofia con tale convinzione, che finì addirittura per gettarsi nel fuoco ad Olimpia. Costui perseguitava Erode insultandolo in un linguaggio semibarbaro, per cui rivoltosi una volta verso di lui Erode gli chiese: «Tu mi insulti, e sta bene; ma perche anche in questo modo?». E poiché Proteo persisteva nelle offese, aggiunse: «Siamo invecchiati tu insultandomi ed io ascoltandoti» volendo dire con questo che, sebbene lo ascoltasse, gli veniva da ridere, convinto com era che le false ingiurie non vanno più in là delle orecchie.

Cercherò di spiegare ora anche il genere di eloquenza di Erode, richiamandomi alle caratteristiche del suo discorso. Ho già detto che ebbe come maestri Polemone, Favorino e Scopeliano e che frequentò la scuola di Secondo ateniese, mentre per le questioni critiche dell'oratoria studiò con Teagene di Cnido e Munazio di Tralle e per le dottrine platoniche con Tauro di Tiro. La struttura del suo discorso era sufficientemente armoniosa e la forza della sua eloquenza stava più nella sottigliezza che nel vigore dell'attacco. C'erano una grandezza di effetti ottenuta con semplicità, una magnificenza degna di Crizia, pensieri tali, che nessun altro avrebbe potuto concepire, una scioltezza di linguaggio tipica della commedia non però derivata dall'esterno, ma tratta dal soggetto stesso, lo stile gradevole, ricco di figure retoriche, aggraziato e sapientemente variato, il tono non era impetuoso, ma moderato e calmo, insomma un genere di eloquenza in tutto simile a pagliuzze d oro che risplendano in un fiume dal corso d'argento.

Egli si era dedicato allo studio di tutti gli autori antichi ma soprattutto fu attratto da Crizia, che rese familiare ai Greci, mentre fino allora era stato quasi completamente trascurato. E quando la Grecia lo applaudiva e lo diceva uno dei dieci32, non si lasciò soverchiare da quella lode, sebbene gli sembrasse magnifica, ma con molto garbo a quelli che lo esaltavano diceva: «Di Andocide33 almeno sono migliore».

Nonostante avesse facilità nell'apprendere più di qualsiasi altro, non tralasciò mai di impegnarsi nello studio, al quale si dedicava anche nel banchetto e nella notte durante gli intervalli del sonno, per cui gli indolenti e superficiali lo chiamavano «L' oratore ben pasciuto»34.

Generalmente fra gli uomini c'è chi eccelle o supera gli altri in un'attività e chi in un'altra, chi merita lode per la capacità nell'improvvisare e chi per la bravura nell'elaborare un orazione; ma Erode fu superiore agli altri sofisti sia nell'uno che nell'altro genere e quando volle fare uso del patetico lo trasse non solo dalla tragedia, ma anche dalla realtà della vita quotidiana.

Moltissime sono le lettere di Erode, le dissertazioni, i diari, i manuali e le raccolte, che riuniscono in un breve spazio il meglio dell'antica erudizione.

Coloro poi che lo rimproverano di aver fallito quand'era giovane in Pannonia in una sua orazione davanti all'imperatore35, mi pare che ignorino che la stessa cosa accadde anche a Demostene mentre parlava in presenza di Filippo36; ma questi, tornato ad Atene, pretese onori e corone, pur avendo perduto gli Ateniesi definitivamente Anfipoli37, mentre Erode, quando questo gli avvenne, corse verso il Danubio con l'intenzione di gettarsi a capofitto, tanto grande era in lui il desiderio di diventare famoso come oratore, da considerare meritevole della morte l'errore commesso.

Morì di consunzione a circa 76 anni di età. Nonostante fosse morto a Maratona e avesse dato ordine ai suoi liberti di seppellirlo colà, gli Ateniesi, strappatolo dalle mani dei giovani lo portarono in città, precedendo il feretro uomini di ogni età con pianti e grida, come sogliono fare i figli rimasti orfani di un padre affettuoso, e lo seppellirono nello stadio Panatenaico, facendo incidere sulla sua tomba questo breve e solenne epitaffio: «In questo sepolcro giace tutto ciò che rimane di Erode, figlio di Attico, da Maratona, ma la sua fama è diffusa dappertutto».

Questo è tutto quanto riguarda Erode ateniese, in parte già detto da altri, in parte fino ad ora ancora sconosciuto.

  1. In quanto anch'essi erano discendenti di Eaco.
  2. Milziade (c. 550-489 a.C.) vinse nel 490 a.C. i Persiani a Maratona. Cimone, suo figlio, nel 467 a.C. Ii vinse per terra e per mare alla foce dell'Eurimedonte e l'anno seguente li cacciò dal Chersoneso tracico.
  3. Iliade V 385; i due giganti Oto e Efialte, figli di Aloeo, imprigionarono Marte in un'idria di bronzo, dove rimase per tredici mesi, finché non venne a liberarlo Ermes.
  4. Secondo Kayser p. 290 l'imperatore sarebbe Vespasiano, secondo Münscher, RE VIII I (I9I3) col. 923 s.v. Herodes Atticus, sarebbe invece Nerone o, più probabilmente, Domiziano.
  5. La Suda s.v. 'HrwdhV e gli Scolî a Aristide III 739 Dind. attribuiscono la scoperta allo stesso Erode.
  6. Cfr. Pausania I 29.2. Nelle Dionisie cittadine la statua di Dioniso Eleuterio veniva portata nel tempio del dio all'Accademia.
  7. Lo stadio, capace di circa 50.000 spettatori, fu costruito fra il 140-144.
  8. Il peplo preziosamente ricamato era la veste donata annualmente dalla città di Atene alla dea Pallade.
  9. Copreo, ricordato in Iliade XV 639, era l'araldo del re di Micene Euristeo e trasmetteva ad Eracle gli ordini del sovrano. Sul particolare dei figli di Eracle, da lui strappati dall'ara, cfr. Euripide, Eracle I-72 e passim.
  10. Sull'Odeon di Atene cfr. Pausania VII 20.6. Regilla morì nel 160 e l'Odeon fu iniziato molto probabilmente l'anno dopo.
  11. Sull'Odeon di Corinto cfr. Pausania II 3.6. Lo stesso Pausania II 1.7 s. dà anche una descrizione delle statue del tempio di Posidone Istmio. Sul mito di Melicerte, figlio di Ino e Atamante, cfr. Euripide, Medea 1284 SS. e Ovidio, Metamorfosi IV 48I ss.
  12. Il racconto sull'Eracle è inserito nella biografia di Erode senza un preciso rapporto con ciò che precede e ciò che segue. Olearius, cercando un collegamento, sposta l'interpunzione e legge: «... L'intervento piuttosto di Posidone o dell'uomo chiamato l'Eracle di Erode», ma secondo Kayser p. 298 «Herodis et Philostrati verba intolerabili ratione miscentur».
  13. E' incerto di quale Giuliano si tratti. Secondo Kayser p. 298 sarebbe il Giuliano del quale parla Aulo Gellio, Notti attiche XIX 9.
  14. poimeneV: Jacobs congettura poimnai, «pecore», che sembra soddisfare meglio al senso e avrebbe l'avallo di V.A. II 13.63 aigeV te ... poimnai, ma ha contro la lezione dei codici.
  15. La chenice era una misura per aridi corrispondente alla razione quotidiana di grano per una persona.
  16. 'Agaqiwn è formato su 'AgaqoV «buono».
  17. Canobo o Canopo era il nome del nocchiero di Menelao, morto durante il viaggio di ritorno da Troia e sepolto nel de}ta del Nilo, dove sarebbe sorta la città omonima. Il suo culto è stato spesso confuso con quello di Serapide ed è probabile che qui si alluda al tempio di quest'ultimo in Atene (cfr. Pausania I 18.4).
  18. Il futuro imperatore Antonino Pio.
  19. Senatori e patrizi romani portavano una mezzaluna d'argento o d'avorio per fissare le corregge dei sandali (cfr. Giovenale VII 191 e Scolî ad loc.). Nell'iscrizione del fanum di Regilla lungo la via Appia a Roma (cfr. G. Kaibel, Epigrammata graeca, Berlin I878, n. 1403.23) sono ricordati come segno di nobiltà i «sandali stellati». Il fratello di Regilla, Appio Annio Atelio Bradua fu console nel 160.
  20. Su questo Lucio, come sul suo maestro Musonio di Tiro, mancano notizie.
  21. Sesto di Cheronea, nipote di Plutarco e filosofo stoico, fu maestro di Marco Aurelio e Lucio Vero (cfr. Marco Aurelio, Pensieri I.9).
  22. Cioè, secondo Münscher, op. cit., col. 936, lo considerarono fra i dies nefasti.
  23. Cosi anche Münscher, op. cit., col. 936 e Marrou, p. 208, invexe F. David Harvey in Arte e comunicazione nel mondo antico a cura di Havelock-Hershbell, Bari 1981, p. 498, pensa che si trattasse di schiavi i cui nomi iniziavano ciascuno con una diversa lettera dell'alfabeto.
  24. E' un adattamento del verso di Odissea IV 498 «uno ancora vivo nel largo mare è impedito».
  25. I fratelli Quintili, cioè Sesto Quintilio Condiano proconsole e Sesto Quintilio Valerio suo legato.
  26. Lucio Vero, collega di Marco Aurelio dal 161.
  27. Sirmio (Sirmium), città sulle rive della Sava nella Pannonia, divenne importante base militare romana nel I secolo d.C.
  28. Nella spedizione contro i Parti (163-166) Lucio Vero si fermò probabilmente ad Atene (cfr. Storia Augusta, Vero 6.9), dove forse fu ospitato da Erode.
  29. L'imperatrice Faustina morì improvvisamente ad Halala (chiamata poi Faustinopoli) nel 175, mentre seguiva il marito nella spedizione in Siria, dove Avidio Cassio si era ribellato.
  30. Gaio Avidio Cassio, comandante suprerno delle forze romane in Oriente e in Egitto, ribellatosi a Marco Aurelio, fu ucciso per mano di un centurione nel 175.
  31. Peregrino, soprannominato Proteo, di Pario nella Misia (1OO-165?), filosofo cinico e per un certo periodo convertito al cristianesimo. Le notizie su di lui provengono quasi esclusivamente dall'operetta di Luciano, Sulla morte di Peregrino. Morì suicida gettandosi fra le fiamme durante i giochi Olimpici
  32. I dieci oratori del canone fissato da Cecilio di Calatte in età augustea nell'opera Sullo stile dei dieci oratori attici.
  33. Andocide (c. 440 - c. 390 a.C.), uomo politico e oratore ateniese. Restano di lui tre orazioni sicure e una spuria (Contro Alcibiade), nonché frammenti di altre quattro. I critici greco romani rilevavano fra i difetti delle sue orazioni un uso eccessivo di proposizioni parentetiche, confusione nella trattazione degli argomenti, stile poco rigoroso. Questo spiega la scarsa stima verso di lui della seconda sofistica e qui di Erode.
  34. Secondo Jacobs ap. Kayser p. 3I4 perché, come i polli, mangiava anche di notte
  35. Si tratta dell'ambasceria di saluto, inviata dagli Ateniesi al nuovo imperatore Adriano, mentre dall'Asia puntava contro i Sarmatli nel 118, e non in Pannonia.
  36. Cfr. I.18 n. 2.
  37. E' un altro anacronismo di Filostrato; Filippo occupò Anfipoli nel 357 a.C., undici anni prima di questa ambasceria.

Erode Attico e la sottile ironia di Edward Gibbon

I ricchi senatori di Roma e delle province consideravano come un onore e quasi come un obbligo accrescere lo splendore del loro secolo e della loro patria, e l'influsso della moda suppliva molto spesso alla mancanza di buon gusto o di generosità. Tra la folla di questi privati benefattori merita di essere citato Erode Attico, un cittadino che visse al tempo degli Antonini. Qualunque potesse essere il movente della sua condotta, la sua magnificenza sarebbe stata degna dei più grandi sovrani.

La famiglia di Erode, almeno dopo di essere stata favorita dalla fortuna, fu fatta discendere in linea diretta da Cimone e da Milziade, da Teseo e da Cecrope, da Eaco e da Giove. Ma la posterità di tanti dèi ed eroi era caduta nello stato più abbietto. Il nonno di Erode era finito nelle mani della giustizia e Giulio Attico, suo padre, avrebbe dovuto terminare i suoi giorni nella povertà e nel disprezzo, se non avesse scoperto un immenso tesoro, sepolto sotto una vecchia casa, ultimo avanzo del suo patrimonio. Secondo il rigore della legge, l'imperatore avrebbe potuto far valere le sue pretese, e il prudente Attico prevenne con una franca confessione lo zelo degli informatori. Ma il giusto Nerva, che allora occupava il trono, rifiutò di accettarne alcuna parte e gli comandò di servirsi senza scrupoli del dono della fortuna. Il cauto ateniese insisteva sempre, dicendo che il tesoro era troppo grande per un suddito e che egli non sapeva come usarlo. Abusane, dunque, replicò il monarca con simpatica impazienza, giacché è tuo (1).

Molti saranno dell'opinione che Attico ubbidì letteralmente alle ultime istruzioni dell'imperatore, dal momento che spese la maggior parte della sua fortuna, notevolmente accresciuta da un ricco matrimonio, per pubblica utilità. Egli aveva ottenuto per suo figlio Erode la prefettura delle città libere d'Asia, e questo giovane magistrato, avendo osservato che in quella di Troade mancava l'acqua, ottenne dalla generosità di Adriano trecento miriadi di dramme (circa centomila sterline) per la costruzione di un nuovo acquedotto. Ma nell'esecuzione dei lavori la spesa salì a più del doppio del preventivo e gli ufficiali del fisco cominciarono a mormorare finché il generoso Attico non impose il silenzio chiedendo che gli permettessero di addossarsi personalmente la spesa supplementare (2).

I più abili maestri di Grecia e d'Asia erano stati invitati con generosi compensi a occuparsi dell'istruzione del giovane Erode. Il loro alunno divenne ben presto un celebre oratore secondo l'inutile retorica di quel secolo, la quale, confinandosi nelle scuole, sdegnava di frequentare il Foro o il Senato. A Roma gli fu concesso l'onore del consolato, ma la maggior parte della sua vita egli la passò in un ritiro filosofico in Atene e nelle ville dei dintorni, sempre circondato da sofisti, che riconoscevano volentieri la superiorità del ricco e generoso rivale (3).

I monumenti del suo genio sono periti: alcuni notevoli avanzi conservano ancora la fama del suo buon gusto e della sua munificenza; i viaggiatori moderni hanno misurato le rovine dello stadio ch'egli fece costruire in Atene. Lungo seicento piedi, tutto in marmo bianco, capace di contenere l'intera popolazione, fu finito in quattro anni, mentre Erode era presidente dei giuochi ateniesi.

Alla memoria della moglie Regilla consacrò un teatro, di cui appena si poteva trovare l'uguale in tutto l'Impero; per alcune parti della costruzione non si impiegò altro legno che cedro mirabilmente intagliato. L'Odeon, destinato da Pericle per le esecuzioni musicali e per la prova delle nuove tragedie, rappresentava un trofeo della vittoria che le arti avevano riportate sulla grandezza barbarica, giacché il legname adoperato fu ricavato principalmente dagli alberi delle navi persiane. Nonostante i restauri apportati a quell'antico edificio da un re di Cappadocia, l'Odeon era di nuovo in rovina, ma Erode gli restituì l'antica bellezza e magnificenza. Né la liberalità di questo illustre cittadino rimase ristretta entro le mura di Atene. I più splendidi ornamenti fatti al tempio di Nettuno sull'Istmo, un teatro in Corinto, uno stadio in Delfi, un bagno alle Termopoli e un acquedotto a Canusium in Italia non bastarono ad esaurire i suoi tesori. L'Epiro, la Tessaglia, l'Eubea, la Beozia e il Peloponneso sperimentarono i suoi favori, e molte iscrizioni di città greche ed asiatiche chiamano con gratitudine Erode Attico loro patrono e benefattore (4).

(1) Adriano fece poi un regolamento molto giusto che divideva ogni tesoro tra il proprietario del luogo e lo scopritore (Storia Augusta).

(2) Filostrato, Vite di sofisti, libro II.

(3) Aulo Gellio, Le notti attiche, 1, 2; IX, 2; XVIII, 10; XIX, 12; Filostrato, op. cit.

(4) Filostrato, op. cit. libro II; Pausania, Periegesi della Grecia, libro I e VII, 10. La Vita di Erode (vol. XXX, Mémoires de l'Académie des inscriptions).

Il presente brano è tratto da:

Edward Gibbon, Decadenza e caduta dell'Impero Romano, Avanzini e Torraca editori, Roma 1967 - (5 voll.) - vol. I , pag. 89-01.

Opera originale: The History of the Decline and fall of the Roman Empire

L'illuminista inglese Edward Gibbon (1737-1794) è stato definito come "il primo grande storico moderno, il pittore della decadenza e caduta del mondo antico". Nella sintesi che ci offre del personaggio "Erode Attico", evita di riprendere quelle vicende private e scandalistiche che poi, invece, sono state la causa determinante della creazione del Triopio accanto all'Appia Antica. Guarda di più al clima dell'epoca, alle mode, ai rapporti con il potere ed &egarve; singolare, al proposito, la corrispondenza con l'imperatore Nerva. Se deve darci poi una "pennellata" finale del mecenate miliardario, essa sta tutta in quell'ansia di quest'ultimo di lasciare opere che "non bastarono ad esaurire i suoi tesori".

(Con il testo in neretto si è voluto mettere in rilievo lo spirito caustico del Gibbon) P.G.


Erode Attico raccontato da Gregorovius

Ancor più interessante ed istruttiva per la vita intellettuale di quell'epoca è l'apparizione di Erode Attico, il celebre e munifico benefattore di Atene, che ha fatto per lei assai più di quanto hanno operato gli Imperatori più benevoli. Quest'uomo riuniva in sé, cosa che accade molto di rado, le ricchezze di un Creso con tutti quei doni delle Muse che era possibile avere in tempi come quelli.

Nacque a Maratona al principio del II secolo (1) ed egli stesso ci assicura che discendeva dagli Eacidi. Polemone, Favorino, Scopeliano ed il sofista ateniese Secondo furono i suoi maestri: Tauro di Tiro poi lo introdusse nello studio della filosofia platonica. La sua fama oscurò ben presto quella di tutti i suoi contemporanei ed ebbe anche una maggior durata, dovuta però meno al suo genio che al nobile uso che egli seppe fare delle sue ricchezze.

Era giovanissimo quando si presentò ad Adriano in Pannonia ed il discorso che gli tenne allora non ebbe alcun successo. Solamente nell'inverno del 125-126 egli avvicinò di nuovo l'Imperatore ad Atene e cominciò a diventare famoso. Fu nominato subito Corrector delle città libere dell'Asia, e ben presto diede prova di grande liberalità. Era desideroso di fama in maniera incredibile, e tutte le opere pubbliche che egli intraprese o aiutò non furono certo fatte per solo desiderio di fare del bene o per amore dell'arte. L'opera cui teneva più d'ogni altra, era il taglio dell'istmo di Corinto. La necessità di unire con un canale navigabile i due mari di Grecia era sentita da tutti da molto tempo, e Nerone, durante la sua permanenza in Corinto, non solo aveva fatto preparare il progetto relativo, ma aveva anche fatto incominciare i lavori (2). Ancor oggi si vedono le tracce del taglio di Nerone nel punto più stretto dell'istmo, là dove si trovava l'antica Diolcos, e gli odierni ingegneri hanno seguito quelle tracce. L'opera fu interrotta per il subito ritorno a Roma di Nerone e per la sua mutabilità di carattere, più che per le difficoltà dell'opera, dati i mezzi di cui disponeva la scienza allora e per la superstizione di non forzare la natura (2). Nessun Imperatore riprese più l'idea, e solo Brodo se ne entusiasmò e cercò di portare a termine l'opera gloriosa. Ciò che Filostrato narra a questo proposito acquista un doppio interesse oggi che, dopo tanti secoli, il taglio dell'istmo diventa un fatto compiuto. Un giorno che Brodo viaggiava verso Corinto in compagnia dell'ateniese Ctesidemo, giunto presso l'istmo disse: «Da lungo tempo mi preoccupo di lasciare al mondo un documento che dica ai posteri che io fui un uomo; ma temo di non riuscire». Il suo compagno rispose che la fama del suoi discorsi e delle opere da lui fatte eseguire non era stata sorpassata da nessuno, ma Erode replicò: «Le opere da me fatte eseguire non sono eterne, nei miei discorsi ora da uno ora dall'altro si troverà qualche cosa da criticare, mentre il taglio dell'istmo sarebbe un'opera immortale. Tuttavia per tagliare un istmo, più tosto che un uomo sarebbe necessario Poseidone».

L'osservazione di Brodo prova che a quell'epoca le difficoltà di una tale impresa dovevano essere ancora assai gravi. Pausania dice che la Pitia aveva sconsigliato gli Gnidi di tagliare il loro istmo ed aggiunge: «Così difficile è per gli uomini di fare violenza alla forza degli Dei». Erode Attico sarebbe stato l'uomo adatto per il compimento di quell'opera, anche senza l'aiuto di Poseidone; ma, come afferma Filostrato, egli non ebbe il coraggio di domandare il permesso all'Imperatore, temendo di essere preso per troppo arrogante nel volere compiere un'opera in cui Nerone non era riuscito.

Che Polemone e non lui fosse scelto a pronunciare il discorso inaugurale dell' Olympieion lo afflisse quasi quanto l'abbandono del progetto di tagliare l'istmo. In Atene egli però era insignito dell'altissima carica di gran sacerdote del culto imperiale ed era anche Arconte eponimo. Non fa meraviglia che si sentisse uguale ad un Dio un privato che poteva profondere più milioni di Adriano, che in Atene innalzava edifici magnifici e parlava come Pericle e che dotava di opere grandiosissime molte altre città che lo colmavano di omaggi, i quali andavano non solo alle sue ricchezze, ma anche al suo genio. Ma il figlio di questo semideo non arrivò a leggere l'abbicì. Per fare pubblica pompa del suo dolore alla morte della moglie, la ricca Appia Annia Regilla, romana, fece dipingere in nero la sua casa e la decorò con marmo nero di Lesbo, per la quale cosa, e per molte altre teatrali manifestazioni di dolore, Luciano lo ha messo in ridicolo con molta efficacia. Tutto ciò non era che pazzia; ma in fondo è più deplorevole e ridicola la cortigianeria degli Ateniesi che tolsero dal calendario il giorno della morte della figlia di Erode, Panatenaide. Gli Ateniesi avevano spinto il culto del genio a un punto tale, da arrivare perfino ad imitare la voce, il modo di camminare e l'abbigliamento di un altro celebre sofista, Adriano di Tiro.

Erode non dovette vivere in perfetto accordo con la moglie pianta con tanto fasto; infatti egli venne accusato dai suoi nemici di averla fatta uccidere da uno schiavo. Filostrato smentisce quest'accusa insieme all'altra che egli sia venuto alle mani con Antonino Pio, il futuro Imperatore, quando era Proconsole di Asia, e lui Corrector delle città libere; tuttavia da questi aneddoti si può desumere quanta superbia, litigiosità e passione fossero in quell'uomo. I Sofisti di quel tempo non erano molto lontani dal diventare i tiranni delle città. Sotto altre circostanze, un uomo delle ricchezze e della potenza di Erode sarebbe riuscito a fondare in Atene una dinastia, come più tardi poté fare a Firenze il banchiere Cosimo de' Medici. I suoi schiavi, servi e clienti avrebbero formato un esercito, ed i suoi liberti offendevano con la loro arroganza il popolo ateniese, nel quale serpeggiava pur sempre un certo spirito democratico. Da ultimo gli Ateniesi non poterono più sopportare la natura orgogliosa del loro benefattore, e contro di lui si formò, come un tempo contro Pisistrato, un forte partito, che si appoggiò sui due Quintili che erano i governatori di Atene. Questi due fratelli, Condiano e Massimo Quintilio, erano famosi per il loro ingegno, le loro ricchezze e l'affetto che nutrivano l'uno per l'altro, e godevano di tutta la stima di Marco Aurelio; furono poi fatti uccidere da Commodo. Gli Ateniesi pregarono questi due fratelli di rappresentarli contro Erode davanti a Marco Aurelio, e nell'anno 168 vi fu il processo per il modo arrogante con cui egli trattava la città e per gli eccessi dei suoi liberti. Erode ed i suoi avversari, tra i quali v'era anche il sofista Teodoto, furono ricevuti dall'Imperatore a Sirmio. Questo processo segnò la caduta del Sofista dalla sua posizione privilegiata in Atene. Erode, amareggiato e disgustato, abbandonò Atene e si ritirò nella sua villa a Cefisio e poi a Maratona, dove l'anno 177 morì. Gli efebi di Atene trasportarono il cadavere con grande fasto e lo seppellirono nello Stadio panateniese da lui stesso splendidamente edificato. Il discorso funebre fu tenuto dal suo discepolo Adriano di Tiro. Sulla sua tomba gli Ateniesi scrissero: «Qui riposa Erode, figlio di Attico, di Maratona onorato in tutto il mondo, per tutto ciò che ha fatto» (4).

Gli scritti di Erode sono andati tutti perduti; ed è un peccato, perché le sue Effemeridi devono essere state un'opera di molto merito. Filostrato dice che la sua arte oratoria era simile a quella di Crizia: scorreva facile e senza sforzo, come un ruscello d'argento in cui brillavano di tanto in tanto dei granelli d'oro.

(1) L'anno della nascita è il 95 o il 101; PHILOSTR. Vita Herod. Cap. 24.

(2) SVETON. Nero, cap. 9; Dio, LXIII, 16.

(3) LUCIAN. Nero, cap. 4. Alcuni geometri egiziani assicuravano che il livello dei due mari non fosse uguale e che quindi l'isola Egina sarebbe stata sommersa dal taglio.

(4) PHILOSTR. Soph. II, 73.

Il brano è tratto da:

Ferdinando Gregorovius, Vita di Adriano -Memorie dell'età d'oro dell'Impero-

(1a Edizione italiana: Roma, 1910 - 2a Edizione italiana: I Dioscuri, Genova, 1988)

Edizione anastatica Fratelli Melita Editori – pag. 320-325

Ferdinand Gregorovius, storico tedesco (Neidenburg, 1821 – Monaco, 1891) aveva già scritto nel 1851 una Storia dell'imperatore Adriano e del suo tempo prima della sua ben più nota ed affascinante Storia della città di Roma nel Medioevo (8 vol., 1859 –1872). Poi la rimaneggiò e pubblicò, nel 1884, col titolo: L'imperatore Adriano; quadri del mondo greco-romano del suo tempo. Naturalmente, durante il suo lungo soggiorno di studio a Roma fu attratto dall'Appia Antica e ce ne lascia una testimonianza "sonora", il 6 aprile 1856, nei suoi Diari Romani quando scrive: «Domenica scorsa, andando per la via Appia, tutte le campane di Roma suonavano per la pace della guerra di Crimea annunciata in quel momento dai telegrafi». E' una breve annotazione dietro la quale, però, si può immaginare e quasi ascoltare il concerto che prendeva il volo da centinaia di campanili e cupole, travalicava persino la barriera delle Mura Aureliane e si estendeva sulla campagna romana senza altra interferenza alcuna, al di là delle probabili grida di esultanza dei pur disincantati cittadini romani.

Gregorovius, inoltre, vide pure lui "in diretta", come tanti altri illustri personaggi, gli scavi della via Latina: il 18 giugno 1858 annotava: «Alla fine del 1857 Fortunati ordinò gli scavi nella via Latina, a tre miglia dalla città, e vi scoprì le rovine della chiesa di S. Stefano, costruita da Leone I. Subito dopo vennero alla luce due camere sepolcrali antiche, ben conservate, alle quali conducevano scale di pietra. Vi si vedevano belle stuccature e dipinti alle pareti. Sono stati trovati anche parecchi sarcofagi, di cui uno colla storia di Fedra».

La passione dello studioso prussiano per Roma, con la sua grande Storia e le sue straordinarie bellezze, è tutta espressa da una frase (concepita ammirando dall'alto di Monte Mario la città e pensando all'opera che aveva da poco intrapreso) scritta il 30 aprile 1856: «Roma è il demonio col quale lotto. Se potrò uscire vittorioso dalla lotta, cioè se riuscirò a dominare questo essere potente ed universale e farne oggetto dell'osservazione indagatrice e del senso artistico, sarò anch'io un trionfatore».


Erode Attico visto da Mommsen

La fede profonda che da lungo tempo è perduta, non protegge più l'antica religione nazionale; ma il patrio costume e il ricordo del passato si attaccano a lei soprattutto, e perciò non solo è conservata con ostinazione, ma in gran parte, per effetto di una restaurazione scientifica, diviene col tempo sempre più rigida e antiquata, sempre più patrimonio privilegiato dei dotti.

E' quanto, ad esempio, avviene per il culto degli alberi genealogici, nei riguardi del quale gli Elleni di quest'epoca fecero cose straordinarie, lasciandosi di gran lunga indietro i più orgogliosi rappresentanti della nobiltà romana. La famiglia degli Eumolpidi d'Atene ha una parte eminente nel riordinamento della festa d'Eleusi sotto Marco Aurelio; il cui successore, Commodo, conferì al capo di quella dei Cerici la cittadinanza romana: di essa è originario il valoroso e dotto ateniese, che, quasi come Tucidide, combatté contro i Goti e quindi ne narrò la guerra. Il maestro e consolare Erode Attico, contemporaneo di Marco Aurelio, apparteneva appunto a quella stirpe e il poeta aulico canta di lui, come la rossa scarpa del patriziato romano convenisse bene al nobile ateniese, al discendente di Ermete e di Herse, figlia di Cecrope, mentre uno dei suoi encomiatori in prosa lo celebra come Eacide e nello stesso tempo rampollo di Milziade e Cimone.

I severi grammatici del tempo hanno riempito interi libri di solecismi commessi dal già nominato e celebrato rètore Erode Attico e dagli altri famosi rètori del II secolo, senza tener conto della raffinata artificiosità e della manierata punteggiatura dei loro discorsi. Ma in Atene e in tutta la Grecia, come anche in Roma, la vera barbarie nella lingua e nella scrittura comincia con Settimio Severo.

[...] In Atene, la condizione della famiglia di Erode, più volte ricordato, non era diversa. Possiamo seguirne le tracce per quattro generazioni fino al tempo di Cesare e, come per lo spartano Eurycles, così per l'avo di Erode, a causa della sua usurpata potenza, fu pronunziata la pena della confisca. Gl'immensi latifondi e le vaste pianure posseduti dal nipote nella patria impoverita gli attirarono il malcontento degli stessi governatori romani. Potenti famiglie come quella esistevano probabilmente nella maggior parte delle regioni della Grecia, e, se da un lato prevalevano nelle deliberazioni della dieta provinciale, dall'altro non erano senza rapporti ed influenza anche a Roma…….Primi ad entrare nel senato romano furono Herclanos, pronipote di Lachares, al tempo di Traiano e della famiglia di Erode, e probabilmente il padre di lui, verso la stessa epoca (1).

NOTA

(1) - Erode era ε̉̀ξ υ̉πάτον (Philostr., Vit. soph., I, 25,5, p. 536), ε̉τέλει ε̉κ πατέρων ε̉ς τοὺς δισνπάτους (ivi, 2 pr., p. 545). Null'altro si sa di consolati retti dai suoi antenati; ma è certo che il suo avo Ipparcos non fu senatore. è possibile che si tratti soltanto ascendenti in linea di cognati. La famiglia non ottenne la cittadinanza romana sotto i Giuli (cfr, C. I. A., III, 489), ma soltanto sotto i Claudi.

Da: Teodoro Mommsen, L'Impero di Roma, Dall'Oglio editore, Milano 1966, vol. II, p. 36-40

Titolo originale dell'opera: Die römischen Provinzen von Caesar bis Diokletian(1884)

Mommsem (1817-1903), eminente figura di storico, filologo, epigrafista, giurista, fu un grande ed appassionato cultore dell'antica Roma. Tra il 1854 e il 1856 furono pubblicati tre volumi della sua Storia romana, la più nota e diffusa delle sue moltissime opere, considerata "un capolavoro d'arte, e non più solo di scienza". Il quarto volume in programma, relativo agli imperatori, non uscì mai. Dopo circa trent'anni pubblicò la storia delle province dell'Impero da Cesare a Diocleziano. Nel 1902, per i suoi eccezionali meriti storici e culturali, gli fu conferito il Premio Nobel per la letteratura.

I presenti brani sono tratti dal Capitolo VII "L'Europa greca", rispettivamente dai paragrafi: 17. Il culto del passato; 18. Lingua: arcaismo e barbarismo; 19. Grandi famiglie.


Erode Attico visto attraverso gli occhi di Adriano da Marguerite Yourcenar

Capitolo "Disciplina Augusta"

Su molti punti, d'altro canto, mi sembrava che il pensiero dei nostri filosofi fosse limitato, confuso e sterile anch'esso. Tre quarti dei nostri esercizi intellettuali non sono più che ricami nel vuoto; mi domandavo se tale crescente vacuità fosse dovuta a un decadimento dell'intelligenza o a un declinare del carattere; comunque, la mediocrità di spirito andava raramente disgiunta da una sorprendente bassezza d'animo. Avevo incaricato Erode Attico di sorvegliare la costruzione d'una rete di acquedotti nella Troade; ne profittò per sperperare vergognosamente il pubblico danaro; chiamato a renderne conto, fece rispondere con insolenza d'essere abbastanza ricco per coprire tutto il deficit: e la sua ricchezza, in se stessa, costituiva uno scandalo. Il padre, morto da poco, aveva fatto in modo di diseredarlo con discrezione moltiplicando le elargizioni ai cittadini ateniesi; Erode rifiutò di punto in bianco di tener fede ai legati paterni, e ne nacque un processo che dura ancora.

Capitolo "Patientia"

In Grecia, il processo di Erode Attico dura ancora. La scatola dei dispacci di Flegone, i suoi raschini di pietra pomice, i suoi bastoni di cera rossa mi saranno accanto fino all'ultimo.

Le due citazioni sono tratte da:

Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano, seguite dai Taccuini di appunti, Einaudi (gli struzzi – 340), Torino. (pag. 209 e 266).

Prima edizione di Mémoires d' Hadrien 1951, Librairie Plon, Paris.

L'opera viene considerata il capolavoro della scrittrice Marguerite de Crayencour (1903-1987) che si firmava con lo pseudonimo ricavato dall'anagramma del suo vero cognome. Su Memorie di Adriano, dopo il successo dell'edizione einauidiana nella traduzione di Lidia Storoni Mazzolani, la Yourcenar si espresse in un'intervista così: «Mi soprprende sempre constatare quanto rari siano, soprattutto in Italia, i lettori disposti ad accettare questo libro per quello che è: uno studio sul destino umano, l'immagine d'un uomo che delle sue virtù e dei suoi difetti, delle sue esperienze e della sua cultura poco a poco si compone una sorta di saggezza pragmatica d'amministratore e di principe».

Può essere interessante riflettere sul gioco di specchi e riflessi con cui la figura di Erode Attico ha preso posto nel capolavoro della Yourcenar.


Per tornare alla home page:
Home delle Pagine di Mario Leigheb: Notizie sul Municipio Roma IX, Caffarella, Appia Antica e Tang. Est