Itinerario naturalistico nella valle della Caffarella: là dove la natura combatte una dura lotta

  1. Albero da rosari
  2. Maclura pomifera

La nostra passeggiata comincia sul margine esterno di largo P. Tacchi Venturi, squarcio tra i palazzoni dell'Appio Latino; là, dietro lo sfrecciare delle auto lungo la via Latina (vero e proprio assurdo urbanistico che non invita di certo ad un attraversamento) inizia la valle della Caffarella.

In secondo piano, sullo sfondo, appaiono le prime collinette e gli avvallamenti che la caratterizzano, disseminati di ruderi di diverse epoche. In primo piano l'ampia valletta spicca invece subito per la sua diversità: ciuffi di verde stentato accanto a prato artificiale, due pioppi (Populus nigra) assai malati e rovinati da atti vandalici accanto a giovani esemplari piantati di acero (Acer campestre), leccio (Quercus ilex) e sughera (Quercus suber). La spiegazione è sotto i nostri piedi: tutto deve crescere sopra cumuli di rifiuti ammassati dall'uomo in decine di anni di incuria e abbandono, e solo gli interventi naturalistici eseguiti dal Comune di Roma nel 1999 finanziati dal Piano degli Interventi per il Giubileo sono riusciti a ricreare un'apparente continuità con il resto del Parco.

Agli ingressi sono stati piantati arbusti estranei alla Caffarella quali viburno (Viburnum tinus), lentisco (Pistacia lentiscus), mirto (Myrtus communis), fillirea (Phillyrea latifolia), mentre il terreno è stato riconvertito a prato naturale con la semina di erba mazzolina (Dactylis glomerata), ginestrino arvense (Lotus corniculatus) e vari trifogli (Trifolium pratense e Trifolium repens).

Il terreno fra gli ingressi e nella valletta sottostante è rimasto lo stesso, ed è proprio qui che entriamo in contatto con delle piante importantissime, veri "cirenei" della natura. Sono le piante "pioniere" e ad esse, rustiche ed adattabili, senza tante esigenze, spetta il compito di colonizzare lo strato superficiale e aprire la strada agli altri esseri viventi.

Hanno in genere un apparato radicale superficiale poiché si devono accontentare di poca terra (subito sotto ci sono metri e metri di calcinacci); quindi le radici sono molto estese e fitte per resistere e trattenere proprio questo sottile strato di suolo. Provate ad estirpare, ad esempio, una piantina di malva (Malva sylvestris): sarà una bella impresa.

Ma non sono solo le radici a caratterizzare queste importanti piante. Esse devono anche essere capaci di difendersi dai predatori, cioè dagli animali erbivori. Per questo molte hanno un sapore amaro e un forte odore, che per noi uomini può risultare gradevole mentre per gli animali è decisamente disgustoso. E' il caso della mentuccia (Satureja calamintha), della camomilla (Matricaria chamomilla), della ruchetta (Diplotaxis tenuifolia), della salvia selvatica (Salvia verbenaca), della rusticissima malva che forma alti cespugli su cui spiccano i grossi fiori rosei con striature violacee: tante piante utilizzate in cucina o in erboristeria, ma sdegnate dagli animali.

E poi, a mali estremi, estremi rimedi, altre piante si sono coperte di spine, di peli urticanti (tutti conosciamo la rusticissima ortica), di pellicole dure e coriacee o, addirittura, sono velenose. Proprio due di esse, mortali per l'uomo, si trovano in abbondanza in tutta la valle, soprattutto nelle zone più degradate: sono il cocomero asinino (Ecballium elaterium) e lo stramonio (Datura stramonium), piante vistose sia per i fiori che per i velenosissimi frutti. Le foglie dello stramonio hanno un odore molto particolare, e una volta se ne facevano sigarette per curare l'asma; tuttavia la tossicità ne sconsiglia l'uso a causa dei potenti e spesso mortali effetti allucinogeni (era usata come sinistra "pianta della verità" in tempo di guerra).

E non basta. Altrettanto fondamentali sono le strategie riproduttive che servono a facilitare l'insediamento e la permanenza: tantissimi semi piccoli e leggeri per essere sparsi facilmente dal vento, dagli animali e dall'acqua, o lunghi stoloni (veri e propri rametti striscianti che vanno a colonizzare il terreno tutt'intorno).

Lungo i sentieri incontriamo le piante sinantropiche, piante cioè che tipicamente accompagnano l'uomo. Una delle più comuni è una piccola graminacea, la Poa annua. Diffusissima nei prati, tra le crepe dell'asfalto, sui muri, in ogni luogo dove l'uomo tiene lontano gli erbivori e nello stesso tempo trascura di coltivare il terreno, questa pianta apparentemente insignificante nasconde in realtà un mistero: se essa è a tal punto legata alla presenza umana, dove viveva prima dell'avvento dell'uomo?

In realtà, abbiamo due specie affini: la Poa alpina, che vive in montagna (Alpi, Gran Sasso) in ambienti seminaturali, poi la Poa infirma, che vive a Ostia, Maccarese, in ambienti subtropicali caldo-umidi. Prima dell'avvento dell'uomo, le due specie vivevano completamente separate, una al mare e una in montagna; ma 20.000 anni fa l'uomo ha aperto grandissimi spazi liberi nelle pianure, e entrambe le specie vi si sono dirette. Essendo geneticamente affini (con 14 cromosomi), le due specie si sono incrociate generando una nuova specie con 28 cromosomi, che è appunto la Poa annua, una delle poche specie nate grazie all'intervento dell'uomo prima dell'ingegneria genetica!

Un fenomeno curioso è quello della Silene bianca (Silene latifolia), una cariofillacea dioica: significa che vi sono piante maschili e piante femminili. Se osserviamo il fiore maschile vediamo gli stami, con una polverina rosso-bruna che, toccandola, rimane attaccata; i fiori femminili hanno invece l'ovario con lo stilo e lo stimma che esce fuori.

Le antere del fiore maschile sono infatti parassitate da un fungo, la Puccinia, che produce delle microspore di color ruggine. Il parassita trae nutrimento dal fiore e poi sfrutta le visite degli insetti, attratti dalla corolla, per diffondersi, spore e polline insieme. Un meccanismo molto complesso prodotto dall'evoluzione, e peraltro comune: lo stesso fungo parassita la malva, anche se qui non intervengono gli insetti.

Sovrano di questo ambiente difficile da conquistare e da mantenere è un "invasore": l'ailanto (Ailanthus altissima), detto anche "albero del Paradiso". Questo albero agile e dalla crescita veloce non appartiene infatti alla nostra flora ma è originario della Cina, da dove venne introdotto nel 1760 per l'allevamento di un bruco (la "sfinge dell'ailanto", che si voleva sostituire al baco da seta). Dall'Europa centro meridionale l'ailanto si è esteso rapidamente in altri paesi, grazie alle sue doti di adattabilità.

Lo troviamo quindi in tutte quelle situazioni di alterazione del suolo, dove arriva per primo grazie alla produzione di una gran quantità di semi alati facilmente dispersi anche molto lontano dalla pianta madre.

Se queste caratteristiche ne fanno un'ottima pianta per creare ambienti alberati, proprio come qui davanti a noi, dove altre piante stenterebbero a crescere, la sua prolificità e quasi impossibilità di eliminazione (più la si taglia e più cresce velocemente) può provocare problemi. Ecco quindi un'altra dimostrazione di come l'intervento dell'uomo, se fatto in modo sconsiderato e senza analizzare le possibili conseguenze, possa creare più problemi di quelli che cerca di risolvere.

Nei pressi del castelletto in tubi metallici usato dagli amanti della ginnastica crescono altre due specie vegetali esotiche occasionali: un singolo "albero da rosari" (Melia azedarach), dalla chioma bassa ad ombrello e dai frutti a grappolo simili a pallide ciliege, originario dell'Asia; poi alcuni alberelli dai rami spinosi di Maclura pomifera, un arbusto proveniente del Nord America che produce grosse infruttescenze globose non commestibili.

Albero da rosari

(Melia azedarach)

Melia azedarach

Come riconoscerlo

famiglia: Meliaceae

altezza: 10-15 metri; albero caducifoglio, dal tronco eretto, corteccia verde-brunastra, ruvida e fessurata; rami giovani pubescenti; fiori: piccoli e profumati, 5 petali color lilla, riuniti in grandi pannocchie (appaiono all'inizio dell'estate); foglie: bipennate sempre impari, lunghe fino a 80 cm, con segmenti ellittico-acuminati dentati ai margini; frutti: drupe sferiche di 6-12 mm, tondeggianti, gialle e dal seme duro e inciso.

Curiosità

I semi di questa pianta originaria dell'India e della Cina venivano utilizzati per confezionare collane e rosari (da cui il nome popolare). Introdotta in Italia come specie ornamentale, è presente (sebbene non molto diffusa) soprattutto nelle regioni meridionali e nelle isole.

semi della Melia azedarach
I semi della Melia azedarach

Lo troviamo nella vallecola sotto l.go P. Tacchi Venturi.

Entrambe le specie sono utilizzate come piante ornamentali per siepi, viali e giardini.

Maclura pomifera

Come riconoscerla

famiglia: Moraceae

altezza: 6-12 metri; albero a crescita arbustiva dalla corteccia bruno-aranciata, con spine acute; fiori: infiorescenze sferiche di 2-3 cm di diametro; foglie: lanceolate-acuminate di forma ovale, lunghe 10-12 cm, con margine intero; frutti: infruttescenze di tante piccole drupe, simili ad arancia ma di consistenza legnosa, in superficie verdastra e rugosa.

Curiosità

L'albero, originario del Nord America, è stato introdotto in Italia nel 1818 insieme all'ailanto, per l'allevamento del baco da seta (visto che i gelsi venivano sterminati dalla cocciniglia); conosciuto anche con il nome di "legno d'arco", che si riferisce all'utilizzazione del legno da parte degli Indiani d'America per costruire archi.

Lo troviamo nella vallecola sotto l.go P. Tacchi Venturi.

Alla metà del versante che conduce al casale Tarani si sta formando spontaneamente un boschetto di olmi (Ulmus minor).

Oltre alle piante pioniere prosperano anche alcune specie di animali.

Nonostante il disturbo arrecato dai visitatori, dai cittadini che passeggiano lungo i sentieri e soprattutto dalle persone con il cane, un piccolo uccello frequenta stabilmente questa zona: si tratta del beccamoschino (Cisticola juncidis), che difficilmente vedremo al suolo; molto diffidente, si tiene ben nascosto tranne nei suoi voli ondulati, durante i quali segnala di essere il "padrone di casa" ripetendo continuamente un netto e raspante «dziip... dziip... dziip...».


Adesso se vuoi puoi tornare all'introduzione.

Oppure puoi proseguire la visita con il II capitolo.


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copyright COMITATO PER IL PARCO DELLA CAFFARELLA, 23 febbraio 2003