Itinerario naturalistico nella valle della Caffarella

Ninfe, sorgenti e strani abitanti


Puntiamo decisamente verso il ninfeo di Egeria, nascosto tra la fitta vegetazione alle falde della collinetta dominata dalla chiesa di S. Urbano.

Il sentiero ben tracciato costeggia campi coltivati e pascoli letteralmente cosparsi di "cocci" e altri resti delle ville romane che dovevano sorgere in questi luoghi. Appaiono anche muri in cotto all'interno di erosioni provocate dalle piogge.

In alto sulla nostra sinistra spiccano tre alberi dalla scura chioma: sono tre lecci (Quercus ilex), superstiti del fitto bosco che ricopriva tutta la collinetta a fianco di S. Urbano fino all'ultima guerra mondiale.

leccio
Leccio

Il boschetto, erroneamente identificato con il famoso Bosco Sacro della ninfa Egeria (che viceversa sorgeva nei pressi delle Terme di Caracalla), arrivava fino alle pendici della collinetta, e altre piante di leccio possiamo scoprirle sulla nostra destra al di là del sentiero.

Il grande leccio che domina la collina è un vecchio esemplare di 250-300 anni, sicuramente il discendente di un bosco sacro del tempo di Erode Attico, legato ai riti e alle leggende dell'antica Roma.

Ma come è evidente, tale sacralità si è poi persa al punto che i tre alberi ancora in piedi hanno sofferto anni di attacchi: scortecciamenti, tagli, tentativi di incendio.

La sopravvivenza di questi lecci è viceversa importantissima, perché gli alberi portano con sé inalterato il patrimonio genetico dei progenitori che si stabilirono sulla balza alcune migliaia di anni fa. Per questo motivo il Comitato per il Parco della Caffarella ha avviato la ricostruzione del bosco originario (in collaborazione con il W.W.F. XI gruppo attivo e gli scout AGESCI Roma 112) per mezzo del ripopolamento con individui nati dalle ghiande degli stessi tre lecci, conservandone così il patrimonio genetico. Questa operazione non è stata disturbata dall'intervento di ricostruzione dell'antico aspetto del Bosco Sacro condotto dal Comune di Roma nel 1999: i grandi lecci provenienti da vivai sono stati collocati solo fuori dell'area nella quale crescono le pianticelle.

Subito si riconoscono le scure, lucide e coriacee foglie. Le ricopre un sottile strato ceroso che le rende quasi immangiabili per gli erbivori e rallenta la traspirazione (il leccio è anch'esso una tipica pianta mediterranea e come tale deve sopravvivere nei climi più difficili).

Ma questo albero ha escogitato anche un altro sistema per difendersi dai predatori. Osservate attentamente le foglie dei rami bassi: hanno il margine dentato-spinoso diversamente da quelle dei rami più alti che lo hanno liscio e intero.

E' una caratteristica comune ad altre piante che in genere vivono assieme al leccio come la sughera e l'alaterno. Ma non l'unica: queste piante di clima caldo mantengono le foglie verdi anche in inverno e le perdono solo dopo averne prodotte di nuove alla fine della primavera.

Mentre guardiamo i lecci ascoltiamo: dall'alto ci giunge una melodia fatta di trilli modulati, che ci rivela la presenza di un'allodola (Alauda arvensis); di solito l'allodola canta mentre vola molto in alto, definendo e difendendo i confini del suo territorio. Dalle siepi e dagli arbusti arriva invece la gracchiante risata dello strillozzo (Miliaria calandra).

Il sentiero raggiunge una lunga siepe naturale, fitta di piante cespugliose, che scende da S. Urbano.

Uno stretto passaggio naturale permette di superarla (osservate sulla destra altri lecci ricoperti di vitalba) e arrivare su un prato letteralmente coperto di felce aquilina (Pteridium aquilinum), una delle felci più comuni.

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Felce (autore della foto: Alberto Dominici)

E' l'unica felce che cresce al sole ed è una pianta imponente e dalla crescita rapida, che supera anche il metro di altezza. Ha inoltre spiccate capacità medicinali, soprattutto come vermifugo: la sostanza attiva si trova nelle radici a rizoma, ma in forti quantità può essere velenosa.

Tra le felci riconosciamo alcuni olmi dalla crescita arbustiva. I lecci piantati nel 1990 dal Comitato per il Parco della Caffarella insieme ai ragazzi del gruppo scout AGESCI Roma 112 sono stati distrutti nel grande incendio nell'estate 1998.

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Un olmo allo stato arbustivo (autore: Alberto Dominici)

Alla fine del prato si alza un'altra fitta siepe cespugliata, costituita soprattutto di rovi, edera e vitalba. E subito appare uno degli spettacoli più suggestivi della Caffarella, unione di splendidi elementi naturalistici, storici e monumentali: il ninfeo di Egeria.

ninfeo di Egeria
Il ninfeo di Egeria (per gentile concessione di Marco Placidi, c/o Roma sotterranea)

Generazioni di poeti, scrittori e artisti sono stati conquistati dalla fitta penombra, dal verde intenso e intricato, dallo scrosciare di acque fresche e limpide che, fino al drastico intervento di restauro del 1999, ci hanno fatto qui dimenticare la città per tornare indietro nel tempo a quando questo luogo era meta di feste e riti religiosi.

Il ninfeo appariva nascosto da giganteschi festoni di edera che pendevano dall'alto, mentre ancor più in alto l'ambiente era dominato da imponenti alberi di bagolaro. Ma le vere dominatrici della piccola e splendida grotta artificiale erano invece delle altrettanto piccole piante: muschi, licheni e capelvenere (Adiantum capillus-veneris).

I primi li conoscono tutti, ma forse non tutti sanno che si tratta di una sorta di alghe "terrestri". Il muschio infatti vive come un'alga, mangia e si riproduce come lei, ma vive sulla terra.

In effetti è stata un'alga che in tempi antichissimi si è adattata a vivere fuori dall'acqua pur conservando esigenze acquatiche. Il muschio, infatti, non ha radici, fusto e foglie. Esso è tutto costituito da "filini" che sembrano le sue foglie e che svolgono tutti lo stesso lavoro: l'acqua sale dal terreno, insinuandosi tra le foglioline, ricoprendo tutto l'organismo di un sottile velo.

E' proprio da questa sorta di pellicola permanente che la pianta può assorbire l'acqua e le sostanze minerali di cui ha bisogno, così come l'alga le prende dall'acqua in cui è immersa.

Anche per la riproduzione sessuale il muschio ha bisogno di acqua perché gli "spermatozoidi" per poter fecondare gli organi femminili debbono "nuotare" in gocce d'acqua.

Il muschio quindi è un grande immagazzinatore d'acqua, importante per trattenere le precipitazioni e rilasciarle lentamente (è il fenomeno che impedisce l'erosione del terreno: lo fa il muschio come tutte le altre piante, chi più chi meno, e per questo la loro sopravvivenza è fondamentale soprattutto nelle zone a forte pendenza).

Ma è di vitale importanza anche per tanti piccoli animali (dagli invertebrati, agli uccelli, ai piccoli mammiferi) che lo utilizzano come riserva d'acqua potabile.

Ancora più particolari sono altri ospiti che ricoprono di chiazze colorate i muri, le rocce e i tronchi attorno a noi anche nei luoghi più impensabili: sono i licheni.

Essi sono il risultato di una simbiosi (vita in comune) tra un'alga e un fungo: sono assieme da tempi antichissimi e ognuno ha bisogno dell'altro.

L'alga provvede alla trasformazione dell'anidride carbonica, dell'acqua e della luce (grazie alla fotosintesi clorofilliana) in zuccheri che il fungo non è capace di fabbricarsi. Quest'ultimo però in cambio procura acqua ricca di sali minerali e garantisce all'alga una sicura protezione.

In due per vivere, dunque, ma non per riprodursi in quanto il fungo e l'alga si riproducono separatamente, dando in seguito vita a nuovi licheni.

Anche questi come i muschi hanno una grande importanza: sono i primi intrepidi pionieri ad arrivare su un suolo roccioso che lentamente disgregano trasformandolo in terreno adatto anche ad altri organiscmi vegetali; capaci di crescere e di donare cibo anche nei climi freddi e in alta montagna, dove non ci sarebbe altrimenti veramente nulla.

Ultimo curioso ospite della grotta era il capelvenere, delicata felce tipica proprio degli ambienti con stillicidio di acqua: pareti di pozzi e cisterne, ruderi in ombra e, appunto, grotte.

capelvenere
Capelvenere

Proprio per questo è stato utilizzato come pianta ornamentale fin dall'antichità (il nome lo dimostra) ed anche qui la lavorazione delle pareti e della volta della grotta aveva, molto probabilmente, la funzione di facilitarne l'insediamento.

Questo ambiente così suggestivo, silenzioso e dalle acque limpide (ma non del tutto pulite a causa dell'inquinamento da colibatteri), non poteva che attirare anche degli animali: qui si nascondevano i tritoni ed era facile sentire il gracidare di una raganella (e, con molta fortuna, assistere al repentino tuffarsi di un rospo smeraldino). Fino a pochi anni fa, prima che l'uomo accentuasse il disturbo, erano presenti anche piccoli pesci e i gamberi d'acqua dolce.

Oggi per consolidare la volta l'edera e il grande bagolaro sono stati estirpati, e per pulire le delicate porzioni sopravvissute dell'intonaco e del rivestimento decorativo le pareti sono state accuratamente sterilizzate. Benché alla conclusione del restauro il Comune di Roma abbia piantato nuovi esemplari di edera e felci, arbusti di lentisco, leccio e fillirea, alberi adulti di leccio e farnia, purtroppo dell'aspetto romantico del monumento rimane ben poco.

ninfeo di Egeria
Il ninfeo di Egeria oggi

Una palizzata acuminata impedisce l'accesso ai cittadini, e così la grotta oggi appartiene a merli, pettirossi, cinciallegre e anche fagiani (Phasianus colchicus); è stata qui avvistata anche la tortora dal collare orientale (Streptopelia decaocto).


Adesso se vuoi puoi tornare all'introduzione.

Oppure puoi proseguire la visita con il IX capitolo.


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copyright COMITATO PER IL PARCO DELLA CAFFARELLA, 25 agosto 2003