Itinerario naturalistico nella valle della Caffarella

Nel cuore verde della valle

  1. Le querce della Caffarella
  2. Cinciarella
  3. Prugnolo
  4. Donnola

Abbandoniamo ora, con un po' di rimpianto, la grotta di Egeria. Dopo pochi metri il sentiero si allarga; sotto i nostri piedi cresce una piccola felce (Anogramma leptophylla), una delle pochissime felci annuali, che notiamo attraversando alcuni campi coltivati. Quelli sulla nostra destra sono delimitati da un filare di imponenti gelsi.

Si tratta sia di gelsi neri (Morus nigra) che di gelsi bianchi (Morus alba). Questi sono i famosi alberi le cui foglie sono mangiate dai "bachi da seta", mentre il frutto è apprezzato fin dall'antichità sia come alimento che per le proprietà medicinali.

Entrambi gli alberi, originari dell'Asia orientale, sono ormai diffusi in tutto il mondo a tal punto che di veramente spontanei non ne esistono quasi più. Il gelso nero era già diffuso nell'antica Roma (Ovidio consigliava di mangiare more dei gelsi al mattino per stare bene tutto il giorno), mentre il gelso bianco, più apprezzato dal baco da seta, si è diffuso nel basso medioevo quando è stato importato dalla Cina.

Il sentiero, a sinistra, è affiancato da un fittissimo intrico di rovi, ortiche e velenosa cicuta (Conium maculatum).

In natura le Urticacee sono rappresentate da specie rare e frammentate, il cui ambiente originario sono le grotte, le rupi, in particolare lì dove il suolo è ricco di nitrati grazie agli escrementi depositati dagli uccelli; a quanto pare, dall'ambiente rupestre le Urticacee si sono diffuse prima negli ambienti visitati da grossi erbivori, dove il terreno è ben concimato, e poi, quando l'uomo ha cominciato ad accumulare immondizie, hanno trovato un nuovo ambiente da occupare, e per adattarsi meglio sono evolute diventando le piante sinantropiche che tutti noi conosciamo bene.

Le specie più diffuse sono la parietaria (Parietaria judaica), la pianta infestante causa di gravi allergie per la microscopica grandezza dei granuli pollinici e per la fioritura quasi continua; l'ortica (Urtica dioica) e l'ortica membranosa (Urtica membranacea), che è l'ortica più comune in Caffarella.

Qualcuno subito dirà: "eh no! Qui io non passo" pensando al rischio di "pungersi". Strano destino, quello dell'ortica: odiata ed amata nello stesso tempo, usata come strumento di tortura o per ricavarne tessuti (fino al secolo scorso in Scozia se ne facevano tovaglie e lenzuola), è anche un ottimo e sano alimento (molto buono è il risotto all'ortica) e un utile medicinale (i suoi infusi si utilizzano contro i reumatismi).

Non si può dire lo stesso per la cicuta, ancor oggi famosa per aver fornito il veleno che uccise il filosofo Socrate. Questa specie, conosciuta con il nome di "cicuta maggiore", contiene numerosi alcaloidi tossici, il principale dei quali è la conina, dal nome scientifico della pianta; tutte le sue parti sono velenose, ma i semi sono i più pericolosi (anticamente si raccomandava come antidoto il vino, ma non ne garantiamo l'efficacia!). La cicuta somiglia a molte altre ombrellifere innocue o commestibili; per distinguerla, basta far caso alle macchie viola sul tronco (da cui il nome "maculatum") e al caratteristico odore di urina che emana tutta la pianta.

Proseguiamo ora il nostro cammino, sul sentiero diventato una stradina di campagna in terra battuta. Alla nostra sinistra e in parte sulla destra, cresce abbastanza rigoglioso uno degli ultimi boschi della Campagna Romana, certamente il boschetto meglio conservato della Caffarella.

Accolti da pioppi e querce, attraversiamo questa zona pensando a come doveva essere (ma potrebbe diventarlo di nuovo) il paesaggio originario della valle.

A dominare l'ambiente, esposto a Nord-Est e particolarmente umido, sono le querce (Quercus dalechampii, Quercus cerris), con alberi alti fino a 14 metri, i cui rami sono così fitti che la luce del sole raggiunge con difficoltà il terreno. Ne risulta un sottobosco composto da specie tipiche di questi ambienti: l'acero (Acer campestre), il biancospino (Crataegus monogyna), l'alloro, il ciclamino, il gigaro.

Le querce della Caffarella

Le querce sono piante appartenenti alla famiglia delle Fagaceae, comprendente altri grandi alberi come il faggio e il castagno. Le specie presenti in Caffarella sono sei: il leccio, la sughera, il cerro, la farnia, la roverella e la quercia di Dalechamps.

  1. Quercus ilex (leccio): albero alto fino a 25 metri, molto longevo, tipico costituente dei boschi primari della macchia mediterranea, dei giardini e delle ville storiche di Roma; prediligie i luoghi asciutti; foglie: persistenti, spesse, coriacee con picciolo peloso, lisce e lucide superiormente, grigiastre di sotto, ovali o lanceolate con margini più o meno dentati a volte quasi spinosi; frutti: ghianda ovata con punta allungata avvolta fino a metà nella cupola.
    Lo troviamo nel Bosco Sacro e sul versante sinistro della valle.
  2. Quercus suber (sughera): albero alto fino a 20 metri, tipico di macchie e di boschi sempreverdi su suoli sabbiosi; corteccia prima liscia, poi spessa da 3 a 5 cm, spugnosa e rugosa a formare il sughero utilizzato commercialmente; foglie: persistenti fino a 2-3 anni, ovate-lanceolate con margine di regola dentato (come quello del leccio), talvolta intero; frutti: ghianda con punta breve e capsula più o meno conica.
    La troviamo nel giardino che circonda la chiesa di S. Urbano; qualche esemplare è stato piantato dal Comune di Roma durante la sistemazione del Parco negli anni 1999-2000.
  3. Quercus cerris (cerro): grande albero dalla forma slanciata alto fino a 35 metri, dal tronco diritto e chioma ovale, tipico nei querceti misti insieme al farnetto (Quercus frainetto), su suoli con buona ritenzione idrica; corteccia grigiastra, desquamata in piastre compatte sui bordi; foglie: caduche, variamente lobate o incise, molto ruvide su entrambe le facce; frutti: ghianda lunga 2-3 cm, ricoperta per metà dalla cupola emisferica, caratterizzata da squame lineari lunghe fino a 1 cm.
    Lo troviamo nel boschetto di querce lungo il versante sinistro della valle.
  4. Quercus robur (farnia): albero alto fino a 30-35 metri, molto longevo, tipico delle pianure alluvionali e delle valli umide con falda freatica superficiale, tronco robusto e presto ramificato a formare una chioma irregolarmente ovata e molto ampia; foglie: caduche, con 4-6 lobi arrotondati in ciascun lato, verde scuro sopra e più chiaro sotto, leggermente coriacee; frutti: 2-3 ghiande su un peduncolo comune lungo 2-5 cm.
    La troviamo nel boschetto di querce lungo il versante sinistro della valle.
  5. Quercus pubescens (roverella): albero di taglia non molto grande (raramente supera i 20 metri), tipico di boschi e cespuglieti aridi, di pendii caldi e luminosi, su terreni calcarei anche rocciosi; i rami giovani sono coperti da un denso feltro di peli biancastri; foglie: semplici, con 5-6 lobi profondamente incisi per lato, glabre e di colore verde scuro di sopra, più pallide e tomentose di sotto; frutti: ghianda la cui cupola è composta da squame triangolari disposte come le tegole di un tetto.
    La troviamo nel fondovalle lungo il sentiero dal lato sinistro della valle.
  6. Quercus dalechampii (dal nome del medico e botanico di Lione J. Dalechamps, 1513-1598): albero alto fino a 20 metri molto simile alla rovere, presente sporadicamenti in boschi acidofili e freschi; la distribuzione nel Lazio è ancora poco studiata; foglie: caduche, pressoché glabre, lobate, con lamina coriacea, rigida, lucida superiormente; frutti: ghianda priva di peduncolo, ricoperta da una cupola a squame rombiche.
    La troviamo nel boschetto di querce lungo il versante sinistro della valle.

Le querce sono un genere di piante complesso e poco conosciuto a causa dell'impollinazione anemofila che produce molti individui ibridi e quindi con caratteri intermedi. Addirittura alcuni autori ritengono che questo boschetto sia popolato di Quercus virgiliana (di questa pianta ne parlerebbe Virgilio nelle Georgiche), avente caratteristiche intermedie tra la farnia e la roverella, e quindi adatta ad un ambiente intermedio tra il corso d'acqua sottostante e la piana più arida superiore.

L'importanza di questa specie (o di questo ibrido) è che, a differenza delle altre querce, ha le ghiande più o meno commestibili: gli autori latini (Plinio, Livio) riferiscono infatti che queste ghiande sarebbero state un cibo per gli schiavi e la popolazione più povera in epoca repubblicana. Probabilmente i Romani riconobbero l'utilità a fini alimentari di questa pianta e la diffusero; le ghiande erano macinate e impastate con il farro (un progenitore del frumento, così importante per la civiltà romana da lasciarne testimonianza nella parola "farina", presente in tutte le lingue neolatine), per ottenerne un pastone simile alla polenta.

In età imperiale i Romani soppiantarono progressivamente le querce con il castagno, che fino a quel momento era rarissimo nella penisola, e da allora le castagne hanno costituito il cibo dei poveri fino praticamente all'ultima guerra. Tuttavia questo boschetto, residuo di un tipo di bosco che oggi troviamo solo più a Sud (verso Castelporziano) o più a Nord (verso Bracciano e i monti Sabatini), resta per noi una testimonianza della presenza umana prima dell'Impero Romano, avendo quindi una grande importanza sia naturalistica che storica.

Vogliamo ricordare altri due interessanti fenomeni. Uno lo potete vedere, anzi sentire, all'uscita di questo primo boschetto: sulla destra, in basso, esce, con un forte getto scrosciante, una delle sorgenti maggiori della valle.

Una conferma della forte presenza di acqua nella Caffarella e della necessità di tutelare al più presto questo prezioso bene; e una conferma della ricchezza di questa valle e della sua natura, sopravvissuta a pochi minuti dal caos della città, viene da uno spettacolo che possiamo ammirare, proprio lungo questa stradina, nelle calde serate di fine primavera: improvvisamente, nel buio del bosco, compaiono decine di piccole luci fosforescenti. Sì, sono proprio loro, le lucciole (Luciola italica), lontano ricordo dell'infanzia, ormai quasi scomparse dalle nostre campagne a causa dell'esagerato uso di prodotti chimici in agricoltura, e invece presenti ancora in Caffarella.

La loro luminosità, prodotto di un complesso fenomeno chimico-biologico e motivata dal corteggiamento (solo i maschi sono in grado di volare), ci accompagna silenziosamente in questo interessantissimo settore della valle, forse il meglio conservato perché più difficile da raggiungere.

Proseguiamo ora il nostro cammino attraverso altri campi, al di là dei quali capita talvolta di udire il lungo richiamo dell'assiolo (Otus scops), che frequenta i boschetti della via Appia Antica.

Superando agevolmente un tratto cespugliato, subito appare il più bel bosco della Caffarella, abbarbicato sulla collinetta dominata da malandati pini d'Aleppo (Pinus halepensis) piantati lì, diversi dal più diffuso e conosciuto pino domestico.

Siamo in un bosco misto, in cui notiamo subito gli imponenti esemplari di querce che, cresciute isolate, hanno potuto espandere notevomente le loro chiome, ed il cui grande tronco è ricoperto di edera e di vitalba. A terra molti tronchi in disfacimento ricoperti di muschi, felci e licheni: è il vero bosco, fatto di vita e di morte, non perfetto, né "pulito", né ordinato, ma per questo veramente naturale. E' l'ordinato disordine della natura fatto di piante intricate, di cespugli inattraversabili, di alberi morti per ridare nutrimento alla terra e poi ad altre piante, di odori forti e intensi, di canti di uccelli e di rumori improvvisi.

A qualcuno apparirà estraneo all'uomo. E forse è così. Estraneo a chi non vi si reca in silenzio, con la voglia di conoscere o anche solo di provare stupore.

Ora, anche per questo, il percorso è "libero": possiamo salire, con una certa difficoltà, immediatamente alla nostra sinistra, oppure proseguire e aggirare il bosco per raggiungerne la cima con i suoi pini.

Da qui il panorama sulla valle è completo, con gli alti alberi che in parte nascondono il lontano quartiere Appio Latino, mentre in basso si erge maestoso il casale della Vaccareccia.

Notiamo immediatamente il contrasto tra gli edifici moderni e la cinquecentesca Vaccareccia, che sembra perfettamente inserita nell'ambiente. Ciò è dovuto ai materiali impiegati nella costruzione dell'edificio: tufo e pozzolana cavati nella stessa Caffarella, formando così una sorta di continuità tra la valle e il casale agricolo.

E' il momento di una pausa per osservare e ascoltare. La presenza delle querce e dei pini, la ricchezza del bosco attirano infatti una grande quantità di uccelli. Sulla nostra destra, sulla cima di un'alta quercia, è visibile (soprattutto in inverno quando l'albero perde le foglie) il grosso nido di una coppia di cornacchie grigie. Una coppia che vive da molti anni nella valle a conferma della "monogamia" e fedeltà di questa specie.

Se questi grossi uccelli sono ben visibili, altri invece preferiscono farsi solo sentire. E il loro modo per dire "sono qua", "questa è casa mia" (canto territoriale), "attenzione" (canto di allarme), o per corteggiare una femmina o ancora per richiamare la prole. Ogni uccello ha un suo campionario di canti, versi e richiami e non è facile imparare a riconoscerli. Vediamone alcuni.

Ecco il verso d'allarme della cinciallegra (Parus major), vivace uccello dalla livrea gialla, bianca e nera: uno squillante "ticciu-ticciu" sempre uguale, ripetuto a lungo quasi alla noia e per questo facilmente riconoscibile.

Così come quello della capinera che dal fitto di un cespuglio lancia il suo "toc-toc", quasi volesse dire "tutti zitti, c'è un pericolo". E sempre nel nascosto delle fronde più basse erompe il forte canto dello scricciolo, pochi grammi di piume per una voce da gigante. Una spiegazione c'è: più l'animale è piccolo più deve escogitare dei sistemi per farsi sentire o vedere. Lo fa per corteggiare la femmina o per delimitare il suo territorio.

Capinera
Capinera

Ci sono così piccoli animali che emettono grandi concerti: è il caso del verdone (Carduelis chloris), del verzellino (Serinus serinus) o dello strillozzo (un nome che è tutto un programma) che dall'alto di alberi, pali o anche antenne televisive, ben visibili a tutti lanciano il loro canto.

Altri invece uniscono al canto anche vivaci colori: la cinciallegra e la "cugina" cinciarella (Parus caeruleus), il cardellino (Carduelis carduelis) dai bei colori giallo, nero e rosso, il pettirosso. E proprio quest'ultimo, oltre al canto e ai colori, ce la mette proprio tutta per difendere il proprio territorio; piccolo, all'apparenza fragile e delicato, quando un intruso tenta di entrare in "casa sua" gli si avventa contro violentemente scacciandolo via. Alcuni esperimenti fatti con animali impagliati hanno dimostrato che il piccolo pettirosso arriva fino a decapitare il finto avversario.

Cinciarella

(Parus caeruleus)

Come riconoscerla: lunghezza: 11 cm; peso 10-15 g; ala: 7,3 cm.

Vertice della testa, ali e coda di colore blu cobalto, ventre giallo, faccia bianca con una striscia nera che attraversa gli occhi. I giovani sono di colore marrone-olivastro. La voce è un acuto "zii" ripetuto varie volte e intercalato da un trillo.

Alimentazione: in primavera-estate insetti, lombrichi, uova e larve; in autunno-inverno frutta, graminacee e semi di conifere.

Riproduzione: febbraio-luglio (fa anche due covate all'anno per compensare le perdite provocate dalla predazione e talvolta dal freddo); nido: nei buchi degli alberi o dei muri ma anche nei luoghi più disparati (tubi, insegne luminose, copertoni di auto, cassette della posta), ama anche utilizzare i nidi artificiali; uova 9-13 (molto numerose sempre per compensare le perdite) di 15,5 x 11,5 mm; incubazione: 14 gg; involo dopo 20-22 gg.

Curiosità: Mette le ghiande su grossi sassi o rami (come fossero incudini) per bloccarle e bucarle meglio: in genere prima di prenderle le soppesa, preferendo quelle piccole e "bacate".

Difende strenuamente il proprio territorio dalle intrusioni di individui della stessa specie ma anche dai nemici (la madre si lancia contro i predatori sibilando come un serpente).

Quando cerca il cibo si può mettere anche a testa in giù lungo il tronco di un albero. Nota è la tecnica con cui buca la capsula metallica delle bottiglie del latte lasciate fuori della porta (U.S.A., Inghilterra), per mangiare la crema che vi si forma.

Si trova in tutti i boschetti.

Se non bastasse, il pettirosso "marca" ovunque il suo territorio con i propri escrementi biancastri. E, curiosissimo, non appena vede qualcosa di estraneo, di nuovo lo va subito a osservare e a marcare: provate a mettere un paletto, dopo poco vi troverete sopra l'inconfondibile "cacchetta" del pettirosso.

Ma non è questo il solo comportamento "curioso" di questo uccello. Durante l'inverno infatti sembra diventare più socievole e zampetta dietro agli altri animali, uomo compreso. Ma non è un improvviso cambiamento di carattere. Semplicemente il "nostro amico" approfitta del movimento che zampe e piedi fanno tra foglie ed erbe secche, per scovarvi gli insetti così difficili da trovare nella stagione fredda.

Ma questo e gli altri boschetti non ospitano solo abitanti pennuti. Il fitto della vegetazione, la sua varietà e ricchezza permettono la vita anche a interessanti micromammiferi. Sono quelli di cui avevamo accennato precedentemente parlando delle borre dei rapaci notturni.

Proprio lo studio di questi rigurgiti ha permesso di scoprire che nella valle della Caffarella vivono animali (difficili da osservare) indicatori di un ambiente in buone condizioni. In particolare sono stati ritrovati resti di crocidura minore (Crocidura suaveolens) e di mustiolo (Suncus etruscus), due insettivori (ricordiamo che pure essendo molto simili ai topi non si tratta di roditori ma di insettivori) la cui presenza è un ottimo segnale di buona salute naturale.

Il primo ha la curiosa caratteristica di formare delle sorte di carovane: davanti la madre e dietro, ognuno attaccato alla coda dell'altro, i piccoli. Una catena solidissima al punto che sollevando la madre i piccoli restano attaccati.

Il motivo di questo comportamento è probabilmente legato alla sensibilità olfattiva dei piccoli i quali, avendo la vista molto debole, non potrebbero trovare altrimenti la strada di casa.

Il mustiolo è ancora più difficile da osservare in natura; ama le regioni calde, nelle quali sceglie i luoghi umidi e ombrosi, proprio come i boschetti che stiamo visitando, dove può trovare le sorgenti presso cui costruire il nido.

Oltre a queste due specie, la Caffarella ospita anche altri due insettivori: il riccio (Erinaceus europaeus) e la talpa (Talpa romana).

Il riccio vive in cespugli e in boschetti asciutti, nutrendosi di insetti, larve, piccoli vertebrati (inclusi i serpenti) e talvolta anche di frutta.

Non è immune dal veleno della vipera, ma riesce ugualmente a sopraffarla grazie all'agilità e all'uso degli aculei.

Il riccio e la talpa indicano un ambiente ben conservato, nel quale contribuiscono a controllare le popolazioni di insetti. E' quindi da sfatare la credenza che la talpa sia un animale dannoso (peraltro in natura non esistono animali dannosi o nocivi: se se ne parla è solo in riferimento all'uomo).

I famosi monticelli di terra che vediamo qua e là sulla spianata ci segnalano la sua presenza. Questo non deve però allarmare i contadini: la talpa non si sognerà mai di mangiare le radici delle piante anche perché, con la sua dentatura specializzata in insetti e lombrichi, non potrebbe neanche farlo. Anzi mangiando gli insetti del terreno porterà vantaggio all'agricoltura.

Chi invece può danneggiare le coltivazioni è un altro degli ospiti di questa zona: l'arvicola di Savi (Microtus savii), un piccolo roditore molto diffuso nella penisola, simile a un topo (ma con le orecchie e la coda molto più corte) che costruisce la sua tana sottoterra dove passa gran parte della giornata.

Ama i terreni umidi e le zone aperte dei boschi (proprio come qui) dove è più facile scavare. E infatti se guardiamo sul pianoro alle nostre spalle (ma anche in altre zone della valle vicino a boschi e cespugli) potremo osservare dei mucchietti di terra: sono gli ingressi delle tane dell'arvicola di Savi.

Una presenza giustificata anche dalla grande quantità di ghiande e pigne qui presenti: basta osservare le une e le altre rosicchiate per scoprire la presenza di questo e di altri roditori.

Una conferma viene ancora una volta dallo studio delle borre: proprio l'arvicola di Savi è l'animale più presente nei resti dei pasti del barbagianni.

barbagianni
Barbagianni

La nostra passeggiata potrebbe anche finire qui, rientrando per via della Caffarella, ma forse la tristezza di osservare il disastro ambientale causato, senza alcun controllo, dalla grande fungaia alle nostre spalle, ci spinge a raggiungere la lunga striscia boscata che costeggia la via Appia Pignatelli.

Ci dirigiamo verso questa zona, tenendoci sulla destra dell'ingresso della fungaia, attraverso pascoli e campi coltivati punteggiati da altre "fosse" (identiche a quelle trovate sull'altopiano all'inizio della nostra passeggiata) con una vegetazione di olmo, alloro, biancospino, prugnolo, berretta da prete, rovo, edera e vitalba.

Superate le ultime "fosse" ci troviamo in un prato di forma ellittica tutto circondato, nel lato che dà verso via Appia Pignatelli, da un rigoglioso bosco con grandi decrepite piante di olmo, quercia (roverella, leccio e cerro) e acero accompagnate da un fitto sottobosco dove troviamo abbondante anche l'asparago pungente (Asparago acutifolius).

cerro
Cerro

L'età del bosco è segnalata soprattutto da una piccola e curiosa pianticella. E' il pungitopo (Ruscus aculeatus) conosciuto da tutti come pianta natalizia (in questo periodo festivo se ne fa una vera e propria inutile strage) ma forse molto meno per le sue particolarità.

Innanzitutto quelle che sembrano foglie sono invece dei rametti trasformati per compiere la fotosintesi clorofilliana. Le vere foglie sono invece dei puntini bianchi disposti sotto le "false foglie". E proprio qui si formano anche i minuscoli fiori biancastri e i frutti rosso acceso.

L'altra curiosità sta nel nome: pungitopo deriva dall'uso che se ne faceva un tempo per proteggere le dispense dalle scorrerie dei topi. Ma non era l'unica utilità di questa antichissima pianta (la sua presenza come dicevamo è segnale di "vecchiaia" del bosco che la ospita): i teneri germogli venivano mangiati come gli asparagi mentre le bacche, tostate, davano una bevanda surrogato del caffé.

pungitopo
Pungitopo

Una pianta di questa età e di tali caratteristiche dovrebbe meritare tutto il nostro rispetto, come d'altronde tutte le altre piante. Invece se ci affacciamo nel vallone alla nostra destra potremo osservare l'ennesimo delitto ambientale commesso dai gestori delle fungaie: un bel boschetto spianato alcuni anni fa per costruire una strada di accesso per una delle fungaie.

Un vero e proprio disastro compiuto nella più totale indifferenza, ma che, dopo le ripetute denunce inviate dal Comitato per il Parco della Caffarella e il sequestro della magistratura, si sta lentamente recuperando grazie allo spontaneo ripopolarsi di querce, olmi, allori, berretta da prete.

Per fortuna un altro splendido ambiente è riuscito a salvarsi, almeno per ora, dalla barbarie degli uomini. Proprio dall'altra parte del vallone, nei primi giorni di primavera, il pianoro sembra coperto di un leggero manto nevoso o di una spolverata di zucchero a velo: sono decine e decine di prugnoli che formano un'intricatissima boscaglia spinosa (non per niente come abbiamo visto il nome del prugnolo è Prunus spinosa) cosparsa dei candidi e profumati fiori.

Da loro nasceranno le carnose e un po' allappanti bacche di un bel colore blu intenso, non molto gradite all'uomo, ma graditissime agli uccelli tra cui i merli, che qui sono abbondantissimi, e le capinere.

Prugnolo

(Prunus spinosa)

prugnolo
Prugnolo

Come riconoscerlo

famiglia: Rosaceae

altezza: arbusto spinoso di 4-5 metri; tronco: molto ramificato con rami serrati e aggrovigliati; corteccia: grigio-nerastra e lucente (da qui il secondo nome di Nerospino per opporlo al biancospino dalla corteccia più chiara e dalla fioritura piť tardiva) che aprendosi mostra un colore arancione acceso; fiori: bianchi a cinque petali (marzo-maggio); foglie: piccole, alterne e ovali (2-4 cm); frutti: drupe blu-nerastre (1-2 cm) in settembre-ottobre.

Curiosità:

Abbondante un po' dovunque dalla pianura alla media montagna, dall'Africa settentrionale alla Scandinavia e alla Siberia meridionale (a Roma è ben diffuso, tranne nelle zone più urbanizzate). Molto rustico si diffonde anche grazie ai numerosissimi polloni e alle difese spinose (solo le capre riescono a mangiarlo). Molto utilizzato dagli uccelli per deporvi il nido o per nutrirsi.

Il frutto, molto allappante, (ma dopo le prime gelate diventa più dolce) è comunque utilizzato per marmellate e liquori (è l'antenato di molti susini coltivati). Il legno duro e resistente, ma di piccole dimensioni è usato solo per attrezzi agricoli, intarsi e bastoni da passeggio.

Un tempo aveva molti utilizzi medicinali: i frutti (ovviamente astringenti) ridotti in pasta sul fuoco erano usati come antidiarroici; i fiori invece, in infuso, come blando lassativo; le foglie hanno proprietà simili ai frutti e se ne faceva una sorta di infuso da bere al posto del té.

Si trova un po' dovunque ma in particolare nella zona dei boschetti di via Appia Pignatelli e nei cespuglieti del fondovalle.

Tutta la zona dei boschetti ospita, ovviamente, la fauna più interessante della Caffarella. I vecchi alberi, pieni di buchi, danno riparo ai rapaci notturni, ma offrono anche casa e dispensa a un piccolo picchio.

E' il torcicollo (Jynx torquilla), molto diverso dai "cugini" più grandi e vistosi, in primo luogo perché non tambureggia; inoltre il colore è di un marroncino tendente al violetto, il becco è più corto (non scava buchi, utilizzando quelli naturali o fatti da altri uccelli), la coda non è rigida (agli altri picchi serve come terzo appoggio quando salgono in verticale).

Ha invece come gli altri le zampe specializzate per restare in equilibrio anche lungo il tronco (due dita in avanti e due in dietro, con unghie forti e ricurve) e il volo ondulato e morbido.

E' facilmente riconoscibile perché si posa a terra per nutrirsi di formiche e emette un verso nasale (un ripetuto "kiu-kiu-kiu"), molto simile ad un pianto.

Il nome deriva dalla sua capacità di piegare il collo nei modi più incredibili. Per difendersi lo allunga gonfiando le penne della testa, muovendosi poi lentamente in avanti e in dietro, proprio come fosse un serpente: un tipico atteggiamento da "attore" che utilizzano anche altri uccelli indifesi, come ad esempio le cince, che inoltre lanciano un fischio molto simile al sibilo del serpente infuriato.

Anche altre specie di picchio frequentano la Caffarella: in diverse occasioni è stato ascoltato il tipico tambureggiamento del picchio rosso maggiore (Picoides major).

Oltre al grido acuto del torcicollo i boschetti risuonano, in primavera ed estate, di altri canti molto simili tra loro: sono l'"uu puu puu" dell'upupa (Upupa epops), che come il torcicollo utilizza i buchi per porvi il suo nido, e il vibrante "turr-turr") della tortora (Streptopelia turtur). Due bellissimi uccelli di media taglia che scelgono questi boschetti come riparo e fonte di alimentazione.

upupa
Upupa

Oltre che sentirli non è difficile vederli. L'upupa con la sua bella livrea marrone nocciola, le striature bianche e nere e la cresta dritta sulla testa mentre cammina sui pascoli alla ricerca di invertebrati: altro che il "triste" uccello nominato da Foscolo come uccello notturno! La tortora quando, dall'alto di un vecchio albero o sui fili della luce, lancia il suo monotono richiamo, udibile sempre più spesso nei quartieri romani, ai quali sembra adattarsi perfettamente.

Chi invece si adatta poco alla città è il cuculo (Cuculus canorus), ma con un po' di fortuna potremo ascoltare il celebre "cuccù" lanciato dai boschetti della via Appia Antica, oppure osservarlo spostarsi da un boschetto all'altro in volo quasi radente al terreno (per forma e tipo di volo sembra un piccolo rapace).

Ma un repentino fruscio tra il sottobosco ci richiama tra gli animali di terra. E' il verdissimo ramarro (Lacerta viridis), il più grosso sauro italiano (arriva fino a 45 cm) che durante la stagione degli amori aggiunge alla sua coloratissima livrea verde smeraldo lo splendente azzurro della gola (solo i maschi).

Animale fortemente territoriale, difende con grande impegno la propria "casa" dalle intrusioni di altri individui della stessa specie, con delle lotte dapprima rituali (esposizione del collo colorato, frustate con la coda, repentini attacchi) poi, se il nemico non se ne vuole andare, veri e propri combattimenti fino alla fuga dell'intruso.

ramarro
Ramarro (autore: Gaetano Palisano)

E accanto allo scattante ramarro ecco la lenta, paziente e "filosofica" testuggine di Hermann (Testudo hermanni), quella che tutti chiamano comunemente tartaruga.

Amante degli ambienti caldi (diversamente dalle "cugine" legate agli ambienti acquatici marini e palustri) e un tempo molto diffusa, sta rarefacendosi sempre più a causa di un'assurda predazione effettuata dall'uomo per tenerla a casa come "animale da salotto". E questo nonostante sia vietato dalla legge italiana (molti animali vengono sequestrati a venditori abusivi grazie alle guardie volontarie del W.W.F.) e anche dalla Convenzione relativa alla conservazione della vita selvatica e dell'ambiente naturale in Europa firmata a Berna nel 1979.

E accanto al lento incedere della testuggine, ecco verso l'imbrunire, lo sfrecciare di un predatore tanto piccolo quanto agguerrito: è la sinuosa donnola (Mustela nivalis), che si nasconde tra le radici dei grossi alberi. A sera esce in caccia e sono guai per tutti. Vera cacciatrice di professione non dà scampo alla sua preda e lo sanno bene i proprietari di pollai dove la donnola si insinua grazie alla sua corporatura snella. E quando entra fa una vera strage uccidendo tutti i polli, magari per portarne via uno soltanto.

Non è crudeltà o furia sanguinaria (sono i soliti aggettivi assurdamente "appioppati" dall'uomo) ma solo riflesso condizionato. La donnola infatti è "programmata" dalla natura per uccidere la preda, e le galline non fanno certo molto per evitarla fuggendo tutte in giro schiamazzando.

Donnola

(Mustela nivalis)

donnola
Donnola

Come riconoscerla: lunghezza testa-corpo: 16-24 cm; lunghezza coda 4-7 cm; peso: 40-130 g (molto variabile tra maschio e femmina che è sempre più piccola).

Colore: parte superiore marrone fulvo, inferiore bianca. La linea di separazione tra i due colori è molto irregolare. D'inverno in alta montagna diventa tutta bianca (la si distingue dall'ermellino perché quest'ultimo mantiene la punta della coda nera).

Ha una voce molto acuta, sibilante, squillante. Gli escrementi lunghi 3-4 centimetri e spessi 1, sono posti in luoghi molto visibili per marcare il territorio. Le impronte sono doppie in quanto l'andatura è a salti.

Ha una vita prevalentemente notturna e crepuscolare, ma alle volte può essere avvistata anche di giorno. A Roma è presente soprattutto nelle aree verdi più periferiche, oppure nei pressi delle discariche.

Alimentazione: intrepido cacciatore, nonostante le dimensioni ridotte, la donnola cattura animali anche molto più grossi di lei come ratti e conigli che assieme a topi, arvicole e uccelli rappresentano la maggior parte della sua dieta. Si nutre però anche di anfibi e rettili, invertebrati e frutta. Grazie alla forma affusolata e alle zampe corte la donnola riesce ad entrare dentro le tane delle sue prede dove compie vere e proprie razzie. Gli animali più grossi, come il coniglio, li cattura aggrappandosi al loro dorso mentre la preda fugge disperatamente fino a morire di collasso.

Riproduzione: accoppiamento gennaio-febbraio; gestazione febbraio-marzo; parto: marzo; allattamento: marzo-aprile. Tana: sotto terra, tra mucchi di pietre, tra radici di alberi, in buchi dei muri. Molto raramente la scava, più spesso allarga un buco preesistente.

La troviamo soprattutto nei boschetti meglio conservati e, alla sera, anche lungo le strade e i viottoli.

E' in fondo il vecchio detto "chi pecora si fa, il lupo se la mangia" confermato dal fatto che proprio il lupo attacca più volentieri cavalli e pecore che fuggono rovinosamente, piuttosto che mucche, capre e muli che invece cercano in tutti i modi di difendersi. Ed anche il cane, ricordandosi dei suoi antenati, ha un simile comportamento. Lo sappiamo indirettamente anche noi che diciamo al bambino "non far vedere al cane che hai paura, se no ti morde". Ed è proprio vero.

Non criminalizziamo quindi la piccola donnola. In fondo ci libera di tanti ratti e topi e, forse, non cercherebbe le galline se trovasse anche altre sue classiche prede come ad esempio i conigli selvatici. Questi sono segnalati in altre zone della via Appia Antica e potrebbero presto arrivare anche in Caffarella. Sarebbe certamente un bell'acquisto.

Continuiamo la passaggiata prendendo uno dei tanti sentierini che, costeggiando i prugnoli e passando attraverso grandi piante di ginestra, puntano verso dei boschetti che occupano delle fosse alle spalle di un'ulteriore fungaia. Purtroppo questa zona subisce ogni anno grossi incendi di certo dolosi, mentre le fosse sono cosparse di rifiuti che non invitano ad inoltrarsi e che dimostrano, una volta di più, la necessità del completamento e della buona gestione del Parco.


Adesso se vuoi puoi tornare all'introduzione.

Oppure puoi concludere la visita con il X e ultimo capitolo.


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copyright COMITATO PER IL PARCO DELLA CAFFARELLA, 25 agosto 2003