La villa dei Quintili e la via Appia Antica fino a Casal Rotondo


Mausoleo a piramide

Sul lato sinistro della via Appia, dopo il tumulo dei Curiazi ma prima dei tumuli degli Orazi, s'innalza il grande rudere di un mausoleo tradizionalmente attribuito ai Quintili, i grandi proprietari terrieri che avevano la villa poco più avanti.


Il mausoleo a piramide prima della villa dei Quintili

Era una tomba a dado sormontato da una piramide. Il nucleo in calcestruzzo è stato completamente spogliato del rivestimento in blocchi di marmo, persino quelli di fondazione, e così oggi il mausoleo ha questa forma caratteristica di fungo; quando la tomba fu scavata dal Canina, nella prima metà dell' '800, si trovarono grandi sculture di grifoni e sfingi, che dovevano ornare la tomba in maniera stupefacente. Dietro, il casale medievale di Santa Maria Nova è ancora oggi una villa privata. Qui, sempre lungo il lato sinistro, è stata trovata l'epigrafe in verso saturnio di Marco Cecilio, ora custodita nel castello Caetani.

A meno di 150 metri dopo i Tumuli degli Orazi, sulla sinistra, le fondamenta di alcuni sepolcri ci preannunciano la villa dei Quintili. Qui la sede stradale lastricata è larga 4,30 metri, mentre le crepidini sono larghe 3,10 metri dal lato della villa, e 3,80 metri dal lato opposto (distanza tra il bordo stradale e il recinto del sepolcro con la scala a chiocciola che sta più avanti).


Fondamenta di un sepolcro prima del ninfeo della villa dei Quintili


La villa in generale

Era una villa immensa (solo l'area acquisita dallo Stato misura 24 ettari), la più vasta fra tutte quelle del suburbio romano dopo villa Adriana. Era così grande; e le rovine così estese che nei secoli scorsi si pensava che qui fosse esistita addirittura una città, alla quale si dava il nome di "Roma Vecchia", lo stesso nome che hanno anche altre grandi ville del suburbio romano, come la villa dei Sette Bassi e la villa dei Gordiani.

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la villa suburbana

Gli imperatori potevano permettersi ville così grandi anche nel centro della città, come per esempio la Domus aurea di Nerone, estesa per circa 80 ettari, mentre fuori Roma, a Tivoli, la villa di Adriano raggiungeva i 120 ettari. L'estensione era quindi una cosa abbastanza normale per queste grandi ville del suburbio, specie se le famiglie erano di una certa importanza.

La via Appia, come anche la via Latina e le altre strade consolari che uscivano da Roma, era caratterizzata dalla compresenza dell'elemento funerario e di insediamenti abitativi e produttivi; ad esempio tale era anche il vicino Triopio di Erode Attico, ed un particolare curioso che riferisce Filostrato è un aperto contrasto tra Erode Attico e i Quintili all'epoca in cui "governarono insieme la Grecia".

L'ingresso principale della villa è sulla sinistra del grande ninfeo sulla via Appia Antica. Il prato era un grande giardino "a ippodromo"; cinto fra 2 muri, sistemato a viali alberati con statue e fontane (forse assumendo lo stesso ruolo del Pecile di villa Adriana), esso conduceva alla villa vera e propria che era in fondo verso la via Appia Nuova, isolata dai rumori e dal traffico della via Appia Antica. Contravvenendo però a qualsiasi regola filologica, siamo costretti a entrare dal casale dei Quintili in via Appia Nuova 1092, dove la Soprintendenza Archeologica di Roma ha collocato bookshop e biglietteria, entrambi affidati ad una società privata.


I Quintili

Noi sappiamo che questa è la grandiosa villa privata dei due fratelli Quintili, appartenenti ad una famiglia senatoria di antica tradizione, vissuti alla fine del II sec. d.C. Sappiamo che il complesso appartenne a loro dal ritrovamento nel 1828 di fistule plumbee con scritto: Quintilii Condianus et Maximus.

I Quintili, ricchissimi proprietari terrieri, scrittori di opere di agrimensura e di argomento militare (come molti grandi personaggi della Roma dei primi due secoli dell'Impero), erano famosi per come andavano sempre d'accordo tanto che ebbero insieme importanti incarichi nell'Amministrazione imperiale. Grazie alla protezione dell'imperatore Marco Aurelio (l'imperatore filosofo, amante della pace e della letteratura, che tutti conosciamo per la statua sul Campidoglio) ebbero una carriera politica sfolgorante: furono governatori dell'Acaia (cioè della Grecia) e della Pannonia (l'attuale Ungheria) dove riuscirono a fermare tentativi di invasione dei Germani; insieme arrivarono addirittura alle cariche consolari nel 151 d.C., e sempre insieme furono mandati a morte dall'imperatore Commodo intorno al 182 d.C..

Come abbiamo visto a proposito degli Orazi e dei Curiazi, questo luogo al V miglio della via Appia era allo stesso tempo un luogo simbolico e storico di Roma, con l'importante caratteristica di permettere di arrivare rapidamente in città per le faccende politiche. Qui i Quintili, pur avendo anche altre proprietà, decisero di godere dei loro ozi tranquilli di campagna, ben inteso che l'otium degli antichi non corrisponde al nostro far niente, bensì al dedicarsi ad attività fisica e intellettuale.


Il ninfeo della villa

Per rivivere ciò che avrebbe provato un ospite dei Quintili, cominciamo la visita non dal bookshop, bensì dall'ingresso originario al ninfeo sulla via Appia Antica


Il ninfeo della villa dei Quintili visto dall'esterno

L'ingresso originario è tra i due plinti adiacenti alla via Appia Antica, dove si vede lo zoccolo di un muro; sopra ci saranno state due colonne, un bel portone fastigiato nel quale si entrava e ci si trovava nell'ippodromo, che in realtà è un giardino dalla forma simile a quella del Circo Massimo, probabilmente abbellito da statue sui lati. Questa struttura si trova anche a Villa Adriana: il cosiddetto Ippodromo è un giardino a forma di ippodromo così come al Palatino nella Villa di Domiziano il cosiddetto Stadio è probabilmente un giardino a forma di stadio o di circo.

Dalla via Appia tre passaggi monumentali erano l'ingresso del ninfeo, dove alcune colonne formavano un "propileo", di cui rimane la colonna in marmo cipollino accanto all'ingresso attuale e un pilastrino. Un ampio emiciclo con una nicchia sul fondo è fiancheggiato da due sale laterali con zampilli d'acqua, che si raccoglieva in un bacino centrale di cui rimane solo il nucleo in calcestruzzo; il tutto era rivestito di marmi, statue e decorazioni varie. Alla sommità c'era un arcone di copertura a semicalotta. Qui fu trovata una statua di Ercole, che indica la presenza di un tempietto, forse dove si vedono alcuni muretti affioranti.

Questa grande fontana aveva una funzione scenografica che dava subito, a chi passava, l'idea della persona privilegiata che vi abitava; forse però era anche accessibile al viandante, per bere e per riposarsi, e dimostra una intenzione politica del proprietario. Chi fosse costui lo indica la tecnica costruttiva: la parte originaria è quella in opera listata, a filari alterni di mattoni e di tufelli, che non appartiene al tempo dei Quintili ma piuttosto al periodo di Commodo (ci sono anche alcuni rimaneggiamenti del III-IV secolo).


L'interno del ninfeo della villa dei Quintili

Come lo vediamo oggi, il ninfeo deve molto alla trasformazione in castelletto nel medioevo (così come Cecilia Metella divenne il Castrum Caetani). Il castello dipendeva dai conti di Tuscolo, che tra il IX e il XI secolo erano padroni di mezzo Lazio. Il grande muraglione è il recinto di chiusura del castelletto, costruito nel medioevo con il calcestruzzo nerastro e materiale di reimpiego (come quelle pietre bianche che si vedono sul fondo). In alto a sinistra c'era una torre che controllava il traffico lungo la strada. Alla fine il castello passò agli Astalli o forse ai Caetani; all'interno del cortile un portichetto con capitelli formava una loggia con balconata, nella quale si svolgeva la vita della piccola corte del XII-XIII secolo

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il castello medievale

Girando intorno al ninfeo, il lungo muro pieno con sopra un canale (che in origine doveva essere coperto) è l'acquedotto che alimenta il ninfeo; tale diramazione è collegata alla casa colonica accanto, che si vede bene anche dalla via Appia Antica dopo aver oltrepassato il ninfeo. Essa in realtà è una cisterna antica, che raccoglieva l'acqua di riserva per la fontana; fu sopraelevata nel XIII secolo con la struttura in tufelli, ed era parte del castelletto.

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Seguendo il muro raggiungiamo la grande cisterna terminale dell'acquedotto dei Quintili, che assumeva il ruolo di piscina limaria e distribuiva l'acqua alle cisterne minori. La villa, con il colossale impianto termale, il ninfeo monumentale e il fabbisogno privato aveva proprio bisogno di tanta acqua ed infatti le sue cisterne erano alimentate da un acquedotto privato le cui arcate si vedono bene percorrendo la via Appia Nuova subito prima del Grande Raccordo Anulare.

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l'approvvigionamento idrico dei Romani

L'acqua era derivata dall'Acquedotto Anio Novus, e le grandi cisterne dentro la villa formavano una riserva.

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gli acquedotti Claudio e Anio Novus

Accanto alla cisterna grande sono allestiti i laboratori di lavaggio e catalogazione dei materiali trovati durante le campagne di scavo in corso. Qui è provvisoriamente ospitata la grande statua di una donna con veste panneggiata con un torsolo davanti alle ginocchia, ritrovata nell'aprile 2005 durante gli scavi sul retro del ninfeo: è Niobe, la figlia di Tantalo e moglie del re di Tebe Anfione.

Secondo il mito Niobe, trasportata dall'orgoglio materno per avere avuto sette figli maschi e sette figlie femmine, osò deridere Latona, la madre di Artemide (Diana) e Apollo. Latona, per vendicare l'offesa, inviò i due figli ad uccidere tutti i figli di Niobe; scamparono solo un maschio e una femmina, che saggiamente avevano sacrificato l'uno ad Apollo e l'altra ad Artemide, mettendosi così sotto la protezione dei due dei e rendendosi inviolabili di fronte a loro. Gli Dei, impietositi dal dolore di Niobe, la mutarono in una roccia, da cui sgorgò poi una fonte che creava l'impressione che la statua lacrimasse.

La statua che vediamo è probabilmente la copia romana di un originale ellenistico, scolpita in marmo greco nel II o al III sec. d.C., ed è alta quasi due metri. Pur mancando della testa e delle braccia, il personaggio raffigurato è inequivocabile: vediamo infatti che il busto della donna è piegato a proteggere la sua ultima bambina (il torsolo davanti alle ginocchia) non ancora trafitta dalle frecce di Artemide.

Può darsi che la Niobe, insieme alla statua colossale di Zeus bronton e ad una testina di marmo (entrambe trovate da queste parti e ora esposte nell'Antiquarium), formassero un unico gruppo scultoreo con tutti i protagonisti dell'episodio.

Le grandi terme

Con le spalle al ninfeo guardando verso la via Appia Nuova, a destra nel punto più alto vediamo il primo ambiente termale: è un enorme frigidarium, coperto da volta a crociera, alle cui pareti si aprono grandi finestroni con vista panoramica sulla via Latina. Il pavimento è rivestito in opus sectile marmoreum di cui restano numerosi frammenti di marmi pregiatissimi, importati da Grecia e Turchia dai Quintili grazie alle cariche pubbliche esercitate in quei luoghi. Purtroppo il cantiere ha subito un furto, e serve un po' di immaginazione per vedere i due grandi dischi in granito, oppure le losanghe di marmo cipollino (lo stesso marmo greco delle colonne), mentre rimangono frammenti delle parti gialle del marmo tunisino "giallo antico".

La costruzione avviene nella fase di massimo sviluppo della tecnica del laterizio. Osserviamo il grande arco in alto che scarica il peso sugli angoli dell'edificio, dai quali partono poi i pennacchi della volta a crociera interna. Sotto si aprono tre grandi finestre, mentre sui lati si vedono finestre murate, a dimostrare che l'edificio ha avuto varie fasi costruttive.

Adiacenti alla sala centrale, due stanzini ospitano le vasche per l'acqua fredda in cui si faceva il bagno seduti, com'era allora abitudine. La vasca sul fondo è ad esedra, quindi con una nicchia, e probabilmente da lì viene la statua che ora si trova a palazzo Torlonia in via della Conciliazione che si chiama "Arianna addormentata" o "Ninfa giacente"; l'intonaco con i listelli di marmo è l'intonaco di preparazione per applicare le lastre marmoree. Il lato opposto ha invece una vasca rettangolare.

Le colonne del frigidarium hanno una curiosa storia. Trovate da Antonio Nibby nel 1828, furono utilizzate dalla famiglia Torlonia, che era proprietaria della villa, per abbellire il Teatro Apollo a Tor di Nona, teatro progettato dall'architetto Valadier (siamo nell' '800). Quando dopo il 1870 furono alzati gli argini del Tevere, gli edifici lungo il percorso furono demoliti, e mentre gli arredi vennero portati chissà dove, le colonne trovarono una sistemazione nel chiostro michelangiolesco delle Terme di Diocleziano. Solo di recente gli archeologi le hanno riconosciute in mezzo alle tante altre colonne del chiostro, e così sono state ricollocate dove le vediamo ora.

Le terme sono una specie di marchio romano. Quando i Romani fondano una città, terme e anfiteatro sono sempre presenti. Quindi le terme, che come indica il nome sono importate dalla Grecia (probabilmente già al tempo di Nerone alla fine del I sec. d.C.), subiscono a Roma una rielaborazione sia nel concetto delle attività del corpo unite a quelle della mente, sia nella razionalità degli edifici che si basano sui due principi dell'assialità (gli ambienti delle vasche disposti lungo un medesimo asse) e della simmetria (strutture speculari: ciò che si trova a destra si trova anche a sinistra) in modo da smaltire il più velocemente possibile il maggior numero di utenti.

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Tutto questo, che è evidente per esempio nelle Terme di Caracalla, manca invece nelle terme dei Quintili. Gli edifici sono messi in maniera piuttosto confusa; apparentemente manca la natatio, cioè la piscina; mancano gli elementi di raccordo o almeno sono sotto terra, tra il frigidarium e l'edificio che vediamo a sinistra, che è sicuramente il più grande ed anche probabilmente il più importante: il calidarium, la vasca in cui si nuotava nell'acqua calda. E' atipico anche il calidarium rettangolare, che in genere ha pianta circolare per ottimizzare il riscaldamento dell'ambiente.

L'altissima aula a pianta rettangolare attesta l'assoluta padronanza della tecnica laterizia e del calcestruzzo; pareti e finestre sono colossali, e grazie alla tecnica della volta a crociera era possibile costruire anche tre piani. Alle pareti si riconoscono i fori usati per le impalcature lignee, che furono tamponati con l'intonaco alla fine della costruzione. Dell'intonaco originario si vede ancora qualche resto. La stanza è illuminata da questi grandi finestroni rivolti a mezzogiorno che, oltre a permettere alla luce del sole di riscaldare l'interno, davano la possibilità di vedere il bellissimo paesaggio esterno. Le finestre non potevano essere così aperte, e nell'intradosso dell'arco sono stati infatti trovati dei fori in cui venivano incastrati i telai delle finestre; esse probabilmente erano fatte con un'intelaiatura di piombo, su cui venivano applicate le formelle di vetro. Formelle che non erano certo ampie come le vetrate moderne, ma che comunque potevano essere lastre di un metro di lato.


La villa dei Quintili vista dalla via Appia Antica?

La grande piscina era raggiungibile scendendo tre gradini. La vasca infatti non è profonda: i Romani non sono stati mai un popolo di grandi nuotatori, preferivano stare "a mollo" con i gomiti appoggiati ai gradini.

Un sistema complesso riscaldava l'acqua della piscina: l'aria calda passava sia in un'intercapedine sotto il pavimento, sorretto da colonnine di mattoni (suspensurae), sia all'interno delle pareti per mezzo di mattoni forati (pareti tubulate). Nel 1999 sono state trovate le tre bocche dei praefurnia, le caldaie che producevano acqua e aria calda. Nelle caldaie sono state trovate anche le impronte della testugo alvei, che letteralmente significa tartaruga della vasca: sarebbe una specie di semiglobo di bronzo nel quale si riscaldava l'acqua.

La volta era a crociera o forse con una capriata di legno; dalle tessere di vetro, soprattutto azzurre e verdi, trovate nel terreno si deduce che doveva essere rivestita a mosaico. Questi ambienti con acqua erano incompatibili con gli affreschi e quindi per la decorazione delle vasche le pareti venivano rivestite di mosaici oppure, come in questo caso, foderate di lastre di marmo, di cui rimangono le impronte. Nel pavimento si riconoscono i resti delle piastrelle marmoree di rivestimento.

Nel corridoio per arrivare alla vasca c'è un piccolo ambiente circolare con resti di pavimentazione in ardesia, che è un tipico materiale per gli ambienti riscaldati; era probabilmente un laconicum, una sauna; ai bordi dei muri si vedono i mattoni forati che permettevano all'aria calda di riscaldare non solo il pavimento ma anche le pareti.

Il Teatro Marittimo

La struttura circolare che troviamo al di là del calidarium è stata variamente interpretata, ed è nota come Teatro Marittimo. E' circondata da finestre arcuate, alcune tamponate, e probabilmente aveva una copertura in legno che dava su un colonnato interno formando un portico. Sia la tecnica costruttiva in opera listata sia i bolli laterizi dei primi anni dell'età di Settimio Severo fanno attribuire l'edificio non ai Quintili ma agli ultimi anni dell'impero di Commodo o ai primi anni dell'impero di Settimio Severo, tra la fine del II e l'inizio del III sec. d.C.

Teatro Marittimo
Il cosiddetto Teatro Marittimo nella villa dei Quintili

L'assenza di opere idrauliche esclude che sia la natatio; alcuni hanno invece visto nella forma circolare un piccolo anfiteatro, dato che Commodo aveva la mania dei giochi, il che perņ non spiega né l'assenza gradinate né la forma circolare anziché ellittica. Recentemente si è pensato ad un viridarium, il giardino delle essenze aromatiche e delle piante ornamentali. Non possiamo però trarre conclusioni fino a che non verrà scavato il pavimento originale, nascosto dal piano di calpestio moderno.

Il nome di Teatro Marittimo deriva dalla somiglianza con il Teatro marittimo di Villa Adriana a Tivoli, che presenta un'analoga forma circolare e il percorso anulare; questo però ha all'interno una piscina con in mezzo un isolotto, nel quale Adriano si rinchiudeva nei momenti di cattivo umore ritirando il ponte di legno in modo che nessuno lo infastidisse.


Altri edifici lungo il giardino-ippodromo della villa dei Quintili

Il settore residenziale

Il settore residenziale si conserva meno bene ed è diviso in una parte privata con le stanze da letto (i cubicola) e in una parte di rappresentanza, dove si tenevano i festini con gli ospiti. Entriamo in quest'ultima raggiungendo una sala ottagonale, la cui pianta assomiglia ad una croce greca orientata secondo gli assi cardinali, e che forse era adibita a triclinio invernale; il locale era infatti riscaldato per mezzo di un sofisticato sistema di intercapedini in cui passava aria calda, sia sotto il pavimento che alle pareti.

Una sala rettangolare dal bellissimo pavimento a losanghe di marmo bianco con cornici di marmo rosso ci introduce nella grande piazza rettangolare di 36 x 12 metri, pavimentata in marmo bianco, che doveva essere un piccolo foro, un luogo di riunione che collegava la zona di rappresentanza con gli ambienti privati che sono più avanti. Vi si entrava scendendo i tre gradini che vediamo sul lato opposto, dietro i quali una struttura voltata probabilmente è una cisterna. Accanto ad essa c'è un piccolo ninfeo collegato, attraverso un complesso sistema di canalizzazioni sotterranee, alle cisterne e agli ambienti termali. In fondo l'arcone isolato ci dà ancora una volta l'idea del fasto della costruzione, e del livello raggiunto nel II sec. d.C. dall'architettura romana, che con le grandi volte a crociera, le grandi finestre ha pienamente sviluppato la tecnica del calcestruzzo.

Gli appartamenti padronali dove risiedettero i Quintili e l'imperatore Commodo sono quelli verso la via Appia Nuova, e dovrebbero risalire alla I fase edilizia della prima metà del II sec. d.C. Grandi finestre affacciano su un panorama che oggi appare immerso nella foschia, mentre in origine spaziava da Tivoli alla via Latina, alle arcate degli acquedotti Claudio-Anio Novus e Marcia-Tepula-Iulia. Le ultime stanze sulla destra sono piccole terme private.

Il podio sopraelevato che dà imponenza alla villa non è una struttura artificiale ma la piattaforma naturale creata dalla colata lavica di Capo di Bove, che prende il nome dai festoni a bucrani nella parte superiore del Mausoleo di Cecilia Metella, dove si arrestò la colata di lava emessa dal Vulcano Laziale tra i 300 e i 200.000 anni fa. La posizione, elevata e altamente scenografica, rendeva la villa perfettamente visibile sia dalla via Latina che dalla via Appia Antica.

Infine, i ruderi che si vedono nella direzione opposta alla città sono una sovrapposizione di edifici diversi, tra cui un ninfeo, altre terme, una necropoli. Qui sono stati trovati dei mattoni con bolli dell'età di Teodorico, che testimoniano la frequentazione della villa, per lo meno a scopo produttivo, anche dopo la caduta dell'Impero.

Scendiamo fino ad un ruscello: è il fosso dello Statuario, così chiamato nel medioevo per la quantità di statue nel terreno circostante.


Il declino della villa

La villa era così monumentale che il figlio di Marco Aurelio, cioè l'imperatore Commodo, se ne volle impossessare. Commodo diventa imperatore nel 180 d.C., e viene descritto come un uomo perverso, crudele, circondato di persone vili, avendo esautorato il Senato di tutti i suoi poteri. Per appropriarsi della villa accusò i due fratelli di cospirare contro di lui e li condannò a morte. La sentenza fu eseguita nel 182 d.C. per strangolamento.

Si racconta che quando i Quintili erano governatori dell'Acaia, un oracolo predisse che sarebbero morti per strangolamento ma che il figlio sarebbe vissuto a lungo per le terre dell'Impero. Quando loro furono strangolati il figlio di uno dei due fratelli, che allora era in Siria, simulò un suicidio bevendo sangue di coniglio e vomitandolo, tuttavia alla fine del regno di Commodo un pretendente che affermava di essere il figlio dei Quintili per entrare in possesso dei loro beni fu smascherato, quindi anche il vero figlio doveva aver fatto una brutta fine.

Rivali in vita, Erode Attico e i Quintili sono accomunati dalla sorte toccata ai loro possedimenti: dopo la morte, la villa dei fratelli Quintili entrò nel demanio imperiale, nel quale confluiva anche la proprietà di Erode Attico.

Del periodo di Commodo (fine del II sec. d.C.) sono facilmente riconoscibili vari ampliamenti. Commodo amava molto trascorrere le giornate in questa residenza perché era lontana da Roma, era un luogo ameno, c'era l'aria buona, era verde, era grande, era bella. Si racconta che durante una carestia il popolo romano si sollevò contro l'Imperatore; da Roma arrivò fin qui una gran massa di persone affamate che urlando, sbraitando, si spinse fin contro il portone sulla via Appia Antica; fatto sta che Commodo non si accorse di nulla perché si era ritirato nella parte privata più interna; allora il comandante della guardia, un liberto favorito di Commodo che si chiamava Cleandro, fece caricare la folla con i pretoriani. Ma la folla inferocita avanzò fin sotto il palazzo, e solo allora Commodo, che fino a quel momento non si era accorto di nulla, spaventato, fece uccidere Cleandro e lo gettò in pasto alla folla che lo trascinò per le vie di Roma, mentre Commodo continuava a godersi tranquillamente la sua villa.

Soprattutto nella villa c'era c'era abbondanza di acqua, che alcuni hanno messo in relazione con una delle grandi manie di Commodo: le fonti ci dicono che l'Imperatore faceva il bagno circa 7/8 volte al giorno e spesso non da solo, ma piuttosto in mezzo a una corte di fanciulli e fanciulle che gli tenevano compagnia. L'altra grande mania era l'anfiteatro, e lui stesso si faceva chiamare Ercole romano perché nell'anfiteatro aveva ucciso dei leoni come Ercole che uccise il leone di Nemea (la sua prima fatica): ai Musei Capitolini, nella sala degli arazzi c'è il busto di Commodo vestito da Ercole.

Quando Commodo muore, la struttura passa ai Severi e quindi ai Gordiani, che nel III sec d.C., modificano alcune strutture come si deduce dall'analisi dei bolli laterizi. La villa pare che sia durata fino alle invasioni gotiche del VI secolo, ricevendo migliorie, rifacimenti e manutenzioni, dopo di che non se ne sa più nulla fino al 1400, quando la villa, in rovina, veniva chiamata villa dello statuario per l'abbondanza di statue; nel 1600-1700 era invece chiamata la "Roma vecchia".

Gli scavi di una certa importanza sono quelli del 1700 effettuati da Pio VI per incrementare il fondo del museo Pio Clementino; altri scavi di rapina (che non erano animati da scopi scientifici ma dal desiderio di appropriarsi dei capolavori che si trovavano sottoterra) vennero effettuati dai Torlonia a partire dal 1797 per adornare la villa sulla via Nomentana.

Nel 1828-29 che gli scavi di Nibby ritroveranno le fistule di piombo con il nome dei Quintili, permettendo finalmente di attribuire con certezza la proprietà della villa.

E' grazie all'acquisto nel 1986 da parte dello Stato che sono stati possibili scavi più scientifici e moderni, prima da parte dell'Università di Tor Vergata e ora da parte della Soprintendenza Archeologica di Roma; attualmente la villa è attrezzata per le visite per un'estensione di circa 24 ettari, che comunque costituisce solo una parte dell'estensione originaria, visto che sono stati trovati dei nuclei anche nelle proprietà private confinanti con questa.


L'Antiquarium

Oggi che la Villa ci appare scortecciata e ridotta a rudere, possiamo farci un'idea del fasto decorativo visitando l'Antiquarium, che nelle stalle del casale dei Quintili espone i pezzi trovati durante gli scavi del secolo scorso. Nelle vetrine sulla parete di destra vediamo dei pezzi che provengono dagli scavi del 1929, sulla parete di sinistra invece ci sono degli oggetti che provengono da questi ultimissimi scavi del 1997-1999. Entriamo dall'ingresso principale.

Al centro c'è una grande statua di Zeus trovata tra gli anni 1925-26 nella zona padronale. Zeus bronton, cioè Giove tonante, è il signore della pioggia e del tuono, una divinità connessa con il culto agricolo e pastorale; essa non si trova frequentemente in Grecia ma piuttosto nell'Asia minore, e probabilmente è arrivata qui insieme alle persone che seguivano i Quintili.

Confrontiamo questa statua con quelle, più piccole, di Giove capitolino, che troviamo in una delle vetrine centrali della parete destra. Giove capitolino è la più importante divinità del pantheon romano, e si trovava sul Campidoglio; osservando i due modelli ci accorgiamo che Zeus bronton segue la classica iconografia di Giove padre nello stare seduto, con la mano destra appoggiata sulla gamba che regge il fulmine, con la mano sinistra che regge lo scettro, e con il capo leggermente inclinato, in atto benevolo verso gli uomini e gli dei. E' invece differente nel supporto: Giove capitolino è seduto sul trono, mentre Zeus bronton è seduto sulla roccia, quindi su un elemento naturale.

Nelle vetrine della parete di destra sono esposti i pezzi trovati nel 1935 al bivio tra via Appia Nuova e via Appia Pignatelli. Le statue erano ammassate insieme in una fossa che probabilmente era una calcara: le calcare erano le fornaci nelle quali i pezzi di marmo erano cotti e trasformati in calce, ed erano frequenti nel medioevo nei luoghi dove il marmo era facilmente reperibile, come poteva esserlo questa villa, che nel '400 era conosciuta come "villa dello statuario". Alcuni pezzi hanno la superficie deteriorata, evidentemente a causa del processo di calcinazione già avviato.

Le statue sono quasi tutte destinate al culto, e appartengono a due gruppi: le statue che raffigurano divinitè classiche, olimpiche (per esempio Ercole), e quelle che raffigurano divinità orientali; esse dovevano appartenere ad un santuario annesso alla villa che non è stato identificato.

Come oggi molti turisti partono da Roma portando con sé delle copie in scala della Pietà di Michelangelo acquistate alle bancarelle, così spesso anche nell'antichità certe statue famose appartenenti a santuari della Grecia erano replicate in modo più o meno accurato per essere vendute. Tra le divinità classiche, un Dioscuro è accompagnato dal suo cavallo; Ercole è il muscoloso personaggio con in mano la pelle del leone riprodotto in due statue; la più piccola, nella prima vetrina, è una replica del II-III sec. d.C. di un modello del IV sec. a.C., che raffigurava il dio con la clava nella mano destra; l'altra, più grande e collocata su un piedistallo accanto alla vetrina, è una replica di un modello del V sec. a.C., che aggiungeva un arco che era retto dalla mano sinistra. Due stautette (di una rimangono solo i piedi) sono accompagnate da un serpentello che si attorciglia intorno a un bastone accanto al piede destro; questo particolare rivela il dio Asclepio, considerato il protettore della salute, e il serpente era l'animale sacro al dio.

Nella seconda vetrina, che espone le divinità orientali, troviamo due personaggi con il classico abbigliamento dell'Asia minore: i pantaloni e il cappello con la punta floscia; essi sono i dadofori Cautes e Cautopates, cioè i due compagni con la fiaccola, uno alzata e uno abbassata, che indicano il percorso solare e che si trovano associati al culto del dio orientale Mitra, molto diffuso a Roma.

La statua acefala con tante mammelle è una delle tante riproduzioni della famosa statua di Artemide di Efeso, risalente al VII secolo a.C. e oggi perduta; si tratta di una divinità antichissima, signora degli animali e dea della fertilità e dell'abbondanza; la rigidità geometrica della figura è infatti coerente con quella delle statue femminili di epoca arcaica, più simili a delle colonne che a degli esseri animati, e connesse con il culto della Grande Madre. La dea indossa un panneggio di animali fantastici con molteplici file di mammelle, che rievocano il carattere di dea della fecondità, e stringe due leoni fra le braccia. Accanto vediamo quello che dovrebbe essere il kàlathos, cioè il copricapo della dea, con la sfinge che allarga le ali.

I due frammenti di alabastro riproducono un caratteristico nodo di allaccio del mantello sotto il petto e sono attribuiti alla dea Iside. Infine, la lastra in fondo non sembra essere una replica e dovrebbe raffigurare Astarte: la divinità fenicia viene rappresentata con le ali, in piedi sopra un leone accovacciato, con un disco solare in testa e un fiore di loto in mano.

Proseguendo incontriamo l'erma con la testa barbuta e dalla complicata acconciatura di una divinità. Nella vetrina successiva due statuette di Zeus sono state trovate nella pars rustica, cioè nella zona destinata alla produzione e abitata dalla servitù; sono probabilmente delle copie in scala della statua al centro della stanza, ma in queste Giove è seduto sul trono. La statuetta di bue era probabilmente un ex-voto al dio, così come lo era la base di statua con la dedica al dio in greco. Nello stesso santuario convivevano divinità greco-romane e divinità "straniere"; la civiltà romana era infatti multirazziale, multietnica, e caratterizzata da una grande tolleranza che rendeva possibile la grande estensione dell'Impero. Anche nella villa dei Quintili si tollerava che nello stesso santuario ci fossero divinità orientali accanto a quelle tradizionali. La presenza delle divinità orientali si spiega anche per la lunga permanenza dei Quintili in Asia minore. Evidentemente i lavoranti che al loro seguito si erano poi stanziati nella villa ebbero il permesso di continuare a venerare gli antichi dei accanto a quelli che trovavano a Roma: una interessante forma di sincretismo. Il luogo di culto potè sopravvivere anche parecchi anni dopo la scomparsa dei Quintili: un cippo contiene la dedica in greco a Zeus bronton, e nomina l'imperatore Gordiano III (238 - 244 d.C.) e la moglie Tranquillina.

Nella parete opposta sono esposti pezzi trovati sparsi; tra questi molto interessante è il pezzo di disco di alabastro nel quale si legge la parola "IcJuV", che in greco significa pesce. Mentre per i greci Ichthus era una parola come un'altra, per i cristiani è l'acrostico delle iniziali di GESU' CRISTO FIGLIO DI DIO SALVATORE. Il disco, ritrovato nel settecento, fu studiato dal De Rossi, il famoso archeologo delle catacombe cristiane, il quale riferisce che nella parte superiore oggi scomparsa si leggeva in latino LIORUM. Il De Rossi interpretava il frammento come QUINTILIORUM, ipotizzando che i Quintili fossero cristiani, e magari per questo erano stati uccisi da Commodo. L'ipotesi non appare plausibile: un simile oggetto, caratteristico del IV-V sec. d.C., testimonia piuttosto la frequentazione della villa anche in tale periodo.

Le altre vetrine raccolgono oggetti provenienti dalle ultime campagne di scavo. Alcuni frammenti di intonaco mostrano nel retro l'impronta della "incannucciata", che sosteneva il soffitto mentre si gettava il calcestruzzo. Dei vasetti di terracotta contengono residui di colore per affresco. In alto ci sono lastrine di marmo pregiato di vari colori e sfumature con cui si disegnavano nel pavimento figure geometriche o floreali (opus sectile marmoreum). La tecnica è sinonimo di ricchezza: in Italia i Romani conoscevano il solo marmo di Carrara, di buona qualitè ma di colore bianco; i marmi colorati o i marmi bianchi di diverse tonalità erano importati dalla Grecia, dall'Asia o dall'Africa, e al costo della lavorazione si aggiungeva quindi un costo notevolissimo di trasporto. In basso è esposto un aureo di Nerone, del 64 d.C.

Alcuni mattoni mostrano impresso il "bollo", marchio con il nome del proprietario, dell'officina o dell'imperatore. I bolli laterizi, benché in genere poco considerati dai musei, sono invece molto utile agli archeologi per datare un edificio, e dimostrano che l'arco di vita della villa va dal 123-125 d.C., (tarda età adrianea) fino alla metè del III sec. d.C. (periodo dei Gordiani).

Poi ci sono due esempi di fistula aquaria, il tubo di piombo nel quale scorreva l'acqua. E' stato proprio grazie al rinvenimento di una fistula con il nome dei Quintili che nell' '800 furono identificati i proprietari della villa. L'ultima vetrina mostra anche un dado da gioco, praticamente identico a quelli che usiamo oggi.

Ammiriamo infine il bellissimo capitello di marmo proconnesio, dalle venature alternate blu e bianche, trovato fra il Teatro Marittimo e gli ambienti termali; rappresenta due leogrifi (creature fantastiche metè leoni e metè aquile) contrapposti, ed è un pezzo unico che si data intorno al II-III sec. d.C..


Il tratto fino a Casal Rotondo

Di fronte al Ninfeo una statua togata apparteneva a qualche personaggio illustre. E' una figura femminile atteggiata nella posa della pudicizia cioè con il velo e la mano che regge il velo di lato. Dietro, coperto di edera, un mausoleo ha una scala a chiocciola che sale a spirale fino alla sommità.

Dopo circa 230 metri dal ninfeo, sulla destra, troviamo abbandonata sul suolo l'epigrafe di un certo Sipsifane Nice, un liberto il cui sepolcro (che doveva avere la forma di un mausoleo circolare) fu eretto per disposizione testamentaria al costo di 27.500 sesterzi.


Epigrafe di Sipsifane Nice

Poco più avanti, sempre a destra, sono i ruderi del sepolcro di Settimia Galla, sormontati da un epigrafe. Poi un blocco di questo piccolo mausoleo circolare, abbandonato più avanti.


Epigrafe di Settimia Galla

A sinistra, di un alto sepolcro a torre si vede bene la camera funeraria interna. Aveva il solito nucleo in calcestruzzo, ed era rivestita di blocchi di peperino, di cui ne avanza qualcuno; avrà poi avuto l'iscrizione, le statue e le decorazioni. Questo ambiente a volta che ricorda un archetto era la camera in cui era collocato il sarcofago; lo vediamo oggi perché la facciata è caduta mentre la porta sul retro non esiste più.


Il mausoleo ad arco

Continuando la passeggiata troviamo sulla sinistra alcuni pezzi interessanti: prima il bassorilievo di un giglio, poi un bel cornicione a racemi.


Un altro motivo floreale

A destra due epigrafi ricordano una certa Vettena Aphrodisia Chresto e un Octavio Nomencatoris. Tornati a sinistra un blocco circolare ricorda un Sergio Demetrio, "vinarius de velabro" (aveva cioè un negozio di vino al Velabro).


Epigrafe di Sergio Demetrio

Tra i vari resti che si erano salvati c'era una statua acefala, collocata nella prima metà dell'800 davanti al grosso nucleo in selce di un sepolcro; la statua ha subito un tentativo di furto nel febbraio 2001, e dopo esssere stata custodita nel casale all'ingresso della Villa dei Quintili è tornata al suo posto.

statua
Statua di un personaggio in toga

Poco più avanti, a sinistra, un grosso nucleo in calcestruzzo ha appoggiata una quinta architettonica alla quale sono stati rubati i pezzi più importanti.


Nucleo in calcestruzzo prima di via Casal Rotondo (per gentile concessione dell'associazione Nova Roma Italia)

Sul lato opposto, sono i resti di un impianto termale, forse pertinente ad una villa, e la tomba di un magistrato dalla quale è stato asportato il fregio a rilievo con armi e fasci consolari.

Casal Rotondo

Di fronte sta la mole del più grande mausoleo della via Appia, più grande anche di Cecilia Metella, detto Casal Rotondo per via dalla forma rotonda del mausoleo e di un casalino costruitovi sopra e ora sostituito da una villetta. La via Appia ha qui la sede lastricata larga 4,20 metri; i marciapiedi sono larghi almeno 4,10 metri dal lato destro (lastricato anch'esso), e 3,35 metri dal lato sinistro di fronte a Casal Rotondo.

D'età augustea è ritenuto, senza fondamento, la tomba di Messala Corvino, amico del poeta Tibullo e console nel 31 a.C.; è formato da un corpo cilindrico, originariamente rivestito in blocchi di travertino (alcuni sono stati ricomposti alla base sul lato destro) messi per il lungo con qualcuno inchiavardato dentro il calcestruzzo, impostato su un basamento quadrangolare di m. 35 di lato, e poi al di sopra c'era un grande cono, un grande tumulo alberato, come usavano questi sepolcri.


Mausoleo detto Casal Rotondo

Quando scavò il sepolcro, Canina seguì il criterio di lasciare i blocchi sul posto per testimonianza e possibilmente dovevano anche essere ricomposti in modo da capire come era il mausoleo in origine. Tuttavia gli elementi architettonici murati nella parete laterizia a fianco del mausoleo, contrariamente a quanto creduto in passato, non sembrano appartenergli e sono stati invece riferiti ad un altro sepolcro in forma di "tholos", un'edicola circolare decorata da un motivo ad archi con sopra delle maschere teatrali, un tetto conico a squame coronato da un pinnacolo e una grande pigna, attribuibile, in base ad un frammento d'iscrizione, ad un membro della famiglia degli Aureli Cotta.

Tutti questi elementi furono composti nel 1830-1840 da Canina in questa quinta di teatro dal gusto barocco. I soliti imbecilli ne hanno rubato i pezzi.


Quinta architettonica eretta dal Canina

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la sistemazione ottocentesca della via Appia

Prima di lasciare il mausoleo, facciamo caso ad una piccola esedra di blocchi di tufo raso terra, che precede i blocchi di travertino ricollocati: erano dei sedili destinati ai viaggiatori. Questo ci aiuta a riflettere sul motivo per cui gli antichi si costruivano le tombe sulla strada.

Il loro desiderio era essere ricordati dopo la morte, era un modo di continuare a vivere. Allora tutti, dal più povero al più ricco, facevano a gara per rendere la tomba accogliente, in modo che se passava un viaggiatore stanco che voleva fermarsi, oppure se pioveva o c'era troppo sole, il sedile, una fontanella, un boschetto invitavano a fermarsi; il viandante si fermava e leggeva l'iscrizione della tomba e il morto era tutto contento di essere ricordato.

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l'organizzazione di una strada antica

Alla base del mausoleo c'è uno zoccolo che forma una cornice sporgente, sopra ci sono alcuni blocchi superstiti messi di testa, 11 filari di blocchi sovrapposti sopra la cornice, poi c'era la cornice di coronamento e in alto iniziava il cono di terra. Il cono con il tempo è scomparso, e un po' del terreno rimasto è diventato l'orto di questo casalino medioevale.

Adesso se vuoi puoi tornare ai monumenti del quinto miglio della via Appia Antica.

Oppure puoi proseguire la visita lungo il tratto della via Appia che arriva fino a Bovillae.


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copyright COMITATO PER IL PARCO DELLA CAFFARELLA 5 agosto 2001